Cimabue assure le renouvellement de la peinture byzantine en rompant avec son formalisme et en introduisant des éléments de l’art gothique, tels que le réalisme des expressions des personnages. De ce point de vue, il peut être considéré comme l’initiateur d’un traitement plus réaliste des sujets traditionnels, ce qui en fait le précurseur du réalisme de la Renaissance florentine.
« [Cimabue] triompha des habitudes culturelles grecques qui semblaient passer de l’un à l’autre : on imitait sans jamais rien rajouter à la pratique des maîtres. Il consulta la nature, corrigea en partie la raideur du dessin, anima les visages, plia les tissus, plaça les personnages avec beaucoup plus d’art que ne l’avaient fait les Grecs. Son talent ne comportait pas la grâce ; ses Madones ne sont pas belles, ses anges dans un même tableau sont tous identiques. Fier comme le siècle où il vécut, il réussit parfaitement les têtes des hommes de caractère et spécialement celles des vieillards, leur imprimant un je ne sais quoi de fort et de sublime que les modernes n’ont pu dépasser. Large et complexe dans les idées, il donna l’exemple des grandes histoires et les exprima en grandes proportion. »
Son influence est immense dans toute l’Italie centrale entre 1270 et 1285 environN 7 :
« Avec ses surprenantes capacités d’innovation et avec la puissance imaginative qui lui a permis les grands effets d’Assise, Cimabue fut de loin le peintre le plus influent de toute l’Italie centrale avant Giotto ; mieux : il en fut le point de référence. »
Développée et éclipsée par ses deux géniaux disciples Duccio et Giotto, son impulsion réaliste innerve ainsi le cœur de la peinture italienne et plus généralement occidentale.
Notre perception de Cimabue a cependant été faussée pendant des siècles par le portrait qu’en a donné Vasari dans sa première Vie, biographie s’inscrivant dans une vision campaniliste à la gloire de Florence (écartant de facto Giunta Pisano) et dont le principal objectif est de servir d’introduction et de faire-valoir à celle de Giotto. Le simple fait qu’il soit dans les Vite a longtemps rendu inacceptable sa formation pisane, les biographies continuant systématiquement à le rattacher à Coppo di Marcovaldo – le florentin le plus illustre le précédant. Et le retrait de la Madone Rucellai du catalogue de Cimabue en 1889 – œuvre clef du dispositif vasarien – a même un temps remis en cause la véracité de son existence.
La ré-évaluation de Cimabue s’est aussi heurtée à une malédiction persistante dont souffre le maigre corpus d’œuvres parvenues jusqu’à nous : la céruse (blanc de plomb) utilisée dans les fresques de la basilique supérieure Saint François d’Assise est, par oxydation, devenue noire, transformant les œuvres en un négatif photographique déroutant voire illisible; le sublime Crucifix de Santa Croce a subi des dommages irréversibles lors de l’inondation de Florence en 1966, et enfin le tremblement de terre de 1997 a fortement endommagé la voûte des quatre évangélistes – la partie jusqu’alors la mieux préservée des fresques de la basilique supérieure Saint François à Assise, pulvérisant notamment le saint Matthieu.
Come tipico dell’epoca l’affresco venne eseguito in una sola giornata stendendo un arriccio grande quanto il ponteggio e procedendo poi con ampie finiture a secco (la stessa tecnica è alla base del pessimo stato di conservazione degli affreschi di Cimabue nella basilica superiore).
L’affresco fu forse ritoccato dalla bottega di Giottonel XIV secolo, ridipinto nel 1587 da un pittore tardocinquecentesco, forse Guido da Gubbio. Nel 1872–1874 fu restaurato da Guglielmo Botti, con un intervento che venne lodato da Cavalcasellema praticando uno di quegli “abbellimenti” neogotici in voga all’epoca. Nel 1973 fu ancora restaurato dall’Istituto Centrale del Restauro di Roma. Le ridipinture non sono state del tutto eliminate per cui l’affresco originale Cimabuesco appare lacunoso e in pessimo stato di conservazione. Molti critici ne valutano solo l’impostazione generale, non i dettagli.
L’opera fu riconosciuta come appartenente a Cimabue da Fra’ Lodovico da Pietralunga nel XVI secolo, ipotesi confermata nel XIX secolo da Sebastiano Ranghiasci. Da allora nessun critico ne ha messo in dubbio l’attribuzione. Più discussa è la datazione che oscilla tra il 1280 e il 1300 circa a seconda degli studiosi. Si è affermata la tesi (da Brandi, 1951, in poi), che la Maestà sia anteriore agli affreschi dello stesso Cimabue nella Basilica superiore (1288–1292); anzi si suppone che proprio la sua felice riuscita sia stata alla base dell’assegnazione a Cimabue degli affreschi della basilica superiore. Ciò è plausibile anche confrontando gli affreschi da un punto di vista stilistico. La recente analisi stilistica dettagliata e rigorosa di Luciano Bellosi (2004) data l’opera al 1285–1288 circa, all’inizio dell’attività assisiate dell’artista.
Adolfo Venturi, notando l’inconsueta asimmetria, ipotizzò che gli adiacenti affreschi di Giotto e bottega avessero coperto una figura alla sinistra del trono della Vergine, simmetrica a San Francesco sulla destra, che avrebbe potuto essere Sant’Antonio da Padova oppure san Domenico (Nylom, 1969). Forse il san Francescofu aggiunto in seguito su richiesta della comunità francescana (ancora Nylom, 1969), ma questa ipotesi è oggi in genere scartata per l’equilibrata organicità della composizione, sia che sia presente un secondo santo, sia senza.
Il trono ligneo di Maria, elegantemente intagliato e un tempo abbellito da dorature, è disposto in tralice come nella Maestà del Louvre, non ancora in scorcio centrale come nella Maestà di Santa Trinita. Sulla spalliera si trova una cortina ricamata. Maria tiene il Bambino sulle ginocchia con una sciolta posizione asimmetrica, poggiando il piede destro su un gradino basso e quello sinistro più in alto, anche per facilitare la tenuta del figlio che siede su quel lato. Gesù, dal volto evidentemente ridipinto (come quello di Maria), tende una mano a afferra con naturalezza un lembo della veste della madre, mentre Maria, dalle dita lunghe e affusolate, gli accarezza un piedino. La forma delle mani è in special modo tipica dell’artista e della sua cerchia, come si vede in opere come la Madonna di Castelfiorentino. Alle ridipinture vanno ascritti anche i panneggi.
Gli angeli, sorridenti e rivolti allo spettatore, si dispongono attorno al trono accarezzandolo con eleganza e inclinando ritmicamente le teste, ora e destra, ora a sinistra, ispirata a opere romane come la Maestà di Santa Maria Antiqua (V secolo) o quella Theotokòs di Santa Maria in Trastevere(fine del VII secolo). Essi sono scalati su due file: se la diversa profondità è ben suggerita dalla loro fisica presenza esaltata dalla platicità dei loro volumi, non chiarito è invece il punto di appoggio su cui stanno, facendo ipotizzare per gli ultimi due un gradino invisibile o una soprannaturale levitazione. Tra gli angeli spicca soprattutto il volto di quello in basso a destra, con le ali finemente sfumate come si riscontra anche negli angeli tra le logge della basilica superiore. Ha un volto enigmaticamente atteggiato, quasi accennante un sorriso, percorso da profonde ombre che danno rotondità.
Il San Francesco è simile a quello ritratto in una tavola conservata nel Museo di Santa Maria degli Angeli. Si tratta di una delle più antiche rappresentazioni del santo, anche se le ridipintura successiva impedisce di trarne conclusioni sulla reale fisionomia. È scalzo, indossa il saio, e ha un aspetto giovanile, con una corta barba e con la chierica. Fissando il fedele, mostra con evidenza i segni delle stimmate sulle mani e sui piedi, nonché sul costato grazie a uno squarcio all’altezza del petto. Egli aveva originariamente orecchie molto grandi, attenuate dalle ridipinture successive, a cui si devono anche i numerosi ritocchi scuri. Al petto tiene un libro.
I due gruppi figurativi si esaltano pacatamente nel contrasto della loro diversità: così elegante e fastosa la Maestà, così sobrio e remissivo il santo. Tutta la composizione poggia su un prato verde, oggi assai annerito per l’ossidazione del colore.
Le aureole non sono in rilievo e raggiate, come quelle più innovative presenti nella basilica superiore ed adottate da tutti gli artisti in seguito nei cicli di affreschi.
La scena della Vergine seduta sul trono celeste insieme a Gesù Cristo della basilica superiore riporta una raffigurazione frontale del trono, con entrambi i fianchi aperti come le pagine di un libro. Una tale rappresentazione del trono sarà usata da Cimabue solo nella tarda Madonna di Santa Trinita (1290–1300circa) e dagli allievi come Duccio di Buoninsegna dopo il 1290, mentre la Maestà del Louvre (1280 circa) e la Madonna di Bologna (1281–1285 circa) riportano un trono in tralice.
Questi i principali indizi che permettono di post-datare la Maestà rispetto alle opere del 1280 circa[1]:
La narice nelle teste piegate a “tre quarti” non è più un semplice ispessimento del bordo del naso come nelle opere di Cimabue del 1280. Tutti gli affreschi assisiati, compresa la Maestà in questione, riportano una sorta di incisione entro il naso, come nella Madonna di Santa Trinita e nel mosaico absidale del duomo pisano, che sono le opere più tarde a noi giunte di Cimabue.
Il volto della Vergine e degli angeli hanno perso la seriosità della Maestà del Louvre ed appaiono più distesi e sereni, quasi sorridenti, come nella Maestà di Santa Trinita.
Gli angeli sono alternativamente rappresentati con i volti a destra e sinistra, una rappresentazione che ricorda la Maestà di Santa Trinita, ma non quella del Louvre.
The Mona Lisa on display in the Uffizi Gallery, in Florence, 1913. Museum director Giovanni Poggi (right) inspects the painting.
The Mona Lisa on display in the Uffizi Gallery, in Florence (Italy). Museum director Giovanni Poggi (right) inspects the painting. The masterpiece would be latter returned to Museum of Louvre where it had been stolen from.
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
The Mona Lisa‘s vacant place in the Salon Carré, Louvre Museum, after having been stolen in 1911. Above the vacant wall space is Veronese‘s The Feast at the House of Simon (now in the Museum of Château de Versailles), on one side, Titian‘s Allegory painted for Alfonso d’Avalos, and on the other Correggio‘s ‘Betrothal of St. Catharine [Catherine] of Alexandria
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
Monna Lisa in Italia a Firenze nel 1913 dopo il furto
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
Excelsior, La Joconde est Revenue (The Mona Lisa has returned), 1 January 1914
The Mona Lisa(/ˌmoʊnəˈliːsə/; Italian: Monna Lisa[ˈmɔnna ˈliːza] or La Gioconda[la dʒoˈkonda], French: La Joconde[la ʒɔkɔ̃d]) is a half-length portrait painting by the Italian Renaissanceartist Leonardo da Vinci that has been described as « the best known, the most visited, the most written about, the most sung about, the most parodied work of art in the world ».[1] The Mona Lisa is also one of the most valuable paintings in the world. It holds the Guinness World Record for the highest known insurance valuation in history at $100 million in 1962,[2]which is worth nearly $820 million in 2018.[3]
The painting is thought to be a portrait of Lisa Gherardini, the wife of Francesco del Giocondo, and is in oil on a white Lombardy poplarpanel. It had been believed to have been painted between 1503 and 1506; however, Leonardo may have continued working on it as late as 1517. Recent academic work suggests that it would not have been started before 1513.[4][5][6][7] It was acquired by King Francis I of France and is now the property of the French Republic, on permanent display at the Louvre Museum in Paris since 1797.[8]
The subject’s expression, which is frequently described as enigmatic,[9] the monumentality of the composition, the subtle modelling of forms, and the atmospheric illusionism were novel qualities that have contributed to the continuing fascination and study of the work.[10]
The title of the painting, which is known in English as Mona Lisa, comes from a description by Renaissance art historian Giorgio Vasari, who wrote « Leonardo undertook to paint, for Francesco del Giocondo, the portrait of Mona Lisa, his wife. »[11][12]Mona in Italian is a polite form of address originating as « ma donna » – similar to « Ma’am », « Madam », or « my lady » in English. This became « madonna« , and its contraction « mona ». The title of the painting, though traditionally spelled « Mona » (as used by Vasari[11]), is also commonly spelled in modern Italian as Monna Lisa (« mona » being a vulgarity in some Italian dialects), but this is rare in English.[citation needed]
Vasari’s account of the Mona Lisa comes from his biography of Leonardo published in 1550, 31 years after the artist’s death. It has long been the best-known source of information on the provenance of the work and identity of the sitter. Leonardo’s assistant Salaì, at his death in 1524, owned a portrait which in his personal papers was named la Gioconda, a painting bequeathed to him by Leonardo.
That Leonardo painted such a work, and its date, were confirmed in 2005 when a scholar at Heidelberg University discovered a marginal note in a 1477 printing of a volume written by the ancient Romanphilosopher Cicero. Dated October 1503, the note was written by Leonardo’s contemporary Agostino Vespucci. This note likens Leonardo to renowned Greek painter Apelles, who is mentioned in the text, and states that Leonardo was at that time working on a painting of Lisa del Giocondo.[13]
In response to the announcement of the discovery of this document, Vincent Delieuvin, the Louvre representative, stated « Leonardo da Vinci was painting, in 1503, the portrait of a Florentine lady by the name of Lisa del Giocondo. About this we are now certain. Unfortunately, we cannot be absolutely certain that this portrait of Lisa del Giocondo is the painting of the Louvre. »[14]
A margin note by Agostino Vespucci (visible at right) discovered in a book at Heidelberg University. Dated 1503, it states that Leonardo was working on a portrait of Lisa del Giocondo.
The model, Lisa del Giocondo,[15][16] was a member of the Gherardini family of Florence and Tuscany, and the wife of wealthy Florentine silk merchant Francesco del Giocondo.[17] The painting is thought to have been commissioned for their new home, and to celebrate the birth of their second son, Andrea.[18] The Italian name for the painting, La Gioconda, means « jocund » (« happy » or « jovial ») or, literally, « the jocund one », a pun on the feminine form of Lisa’s married name, « Giocondo ».[17][19] In French, the title La Joconde has the same meaning.
Before that discovery, scholars had developed several alternative views as to the subject of the painting. Some argued that Lisa del Giocondo was the subject of a different portrait, identifying at least four other paintings as the Mona Lisa referred to by Vasari.[20][21] Several other women have been proposed as the subject of the painting.[22]Isabella of Aragon,[23]Cecilia Gallerani,[24]Costanza d’Avalos, Duchess of Francavilla,[22]Isabella d’Este, Pacifica Brandano or Brandino, Isabela Gualanda, Caterina Sforza—even Salaì and Leonardo himself—are all among the list of posited models portrayed in the painting.[25][26] The consensus of art historians in the 21st century maintains the long-held traditional opinion, that the painting depicts Lisa del Giocondo.[13]
Leonardo da Vinci is thought by some to have begun painting the Mona Lisain 1503 or 1504 in Florence, Italy.[27]Although the Louvre states that it was « doubtless painted between 1503 and 1506 »,[10] the art historian Martin Kemp says there are some difficulties in confirming the actual dates with certainty.[17] In addition, many Leonardo experts, such as Carlo Pedretti[4] and Alessandro Vezzosi,[5]are of the opinion that the painting is characteristic of Leonardo’s style in the final years of his life, post-1513. Other academics argue that, given the historical documentation, Leonardo would have painted the work from 1513.[7] According to Leonardo’s contemporary, Giorgio Vasari, « after he had lingered over it four years, [he] left it unfinished ».[12] Leonardo, later in his life, is said to have regretted « never having completed a single work ».[28]
Raphael’s drawing, based on the portrait of Mona Lisa
Circa 1504, Raphael executed a pen and ink sketch, today in the Louvre museum, in which the subject is flanked by large columns. Experts universally agree it is based on Leonardo’s portrait of Mona Lisa.[29][30][6][31] Other later copies of the Mona Lisa, such as those in the National Museum of Art, Architecture and Design in Oslo and The Walters Art Museum in Baltimore, also display large flanking columns. As a result, it was originally thought that the Mona Lisa in the Louvre had side columns and had been cut.[32][33][4][34][35] However, as early as 1993, Zöllner observed that the painting surface had never been trimmed.[36] This was confirmed through a series of tests conducted in 2004.[37] In view of this, Vincent Delieuvin, curator of 16th-century Italian painting at the Louvre museum states that the sketch and these other copies must have been inspired by another version,[38] while Frank Zöllner states that the sketch brings up the possibility that Leonardo executed another work on the subject of Mona Lisa.[36]
It is unclear as to who commissioned the painting. Vasari states that the work was painted for Francesco del Giocondo, the husband of Lisa del Giocondo.[39] However, Antonio de Beatis, following a visit with Leonardo in 1517, records that the painting was executed at the instance of Giuliano di Lorenzo de’ Medici.[40]
In 1516, Leonardo was invited by King François I to work at the Clos Lucé near the king’s castle in Amboise. It is believed that he took the Mona Lisa with him and continued to work after he moved to France.[25] Art historian Carmen C. Bambach has concluded that Leonardo probably continued refining the work until 1516 or 1517.[41]
The fate of the painting around Leonardo’s death and just after it has divided academic opinion. Some, such as Kemp, believe that upon Leonardo’s death, the painting was inherited with other works by his pupil and assistant Salaì and was still in the latter’s possession in 1525.[17][42] Others believe that the painting was sold to Francis I by Salaì, together with The Virgin and Child with St. Anne and the St. John the Baptist in 1518.[43] The Louvre Museum lists the painting as having entered the Royal collection in 1518.[44]
Given the issue surrounding the dating of the painting, the presence of the flanking columns in the Raphael sketch, the uncertainty concerning the person who commissioned it and its fate around the time of Leonardo’s death, a number of experts have argued that Leonardo painted two versions of the Mona Lisa.[31][6][45] The first would have been commissioned by Francesco del Giocondo circa 1503, had flanking columns, have been left unfinished and have been in Salaì’s possession in 1525. The second, commissioned by Giuliano de’ Medici circa 1513, without the flanking columns, would have been sold by Salaì to Francis I in 1518 and be the one in the Louvre today.[31][6][45]
In December 2015, it was reported that French scientist Pascal Cotte had found a hidden portrait underneath the surface of the painting using reflective light technology.[47] The portrait is an underlying image of a model looking off to the side.[48] Having been given access to the painting by Louvre in 2004, Cotte spent ten years using layer amplification methods to study the painting.[47] According to Cotte, the underlying image is Leonardo’s original Mona Lisa.[47][49]
However, this portrait does not fit with the description of the painting in the historical records: Both Vasari[11] and Gian Paolo Lomazzo[50]describe the subject as smiling; the subject in Cotte’s portrait displays no smile. In addition, the portrait lacks the flanking columns drawn by Raphael in his c.1504 sketch of Mona Lisa. Moreover, Cotte admits that his reconstitution had been carried out only in support of his hypotheses and should not be considered a real painting; he stresses that the images never existed.[51] Kemp is also adamant that Cotte’s images in no way establish the existence of a separate underlying portrait.[42]
Theft and vandalism
« La Joconde est Retrouvée » (« Mona Lisa is Found »), Le Petit Parisien, 13 December 1913
Vacant wall in the Salon Carré, Louvre after the painting was stolen in 1911
On 21 August 1911, the painting was stolen from the Louvre.[52] The theft was first noticed the next day, by painter Louis Béroud. After some confusion as to whether the painting was being photographed somewhere, the Louvre was closed for a week for investigation.
The Mona Lisa on display in the Uffizi Gallery, in Florence, 1913. Museum director Giovanni Poggi (right) inspects the painting.
Excelsior, La Joconde est Revenue(The Mona Lisa has returned), 1 January 1914
French poet Guillaume Apollinaire came under suspicion and was arrested and imprisoned. Apollinaire implicated his friend Pablo Picasso, who was brought in for questioning. Both were later exonerated.[53][54] Two years later the thief revealed himself. Louvre employee Vincenzo Peruggia had stolen the Mona Lisa by entering the building during regular hours, hiding in a broom closet, and walking out with it hidden under his coat after the museum had closed.[19]Peruggia was an Italian patriot who believed Leonardo’s painting should have been returned for display in an Italian museum.
Peruggia may have been motivated by an associate whose copies of the original would significantly rise in value after the painting’s theft. A later account suggested Eduardo de Valfierno had been the mastermind of the theft and had commissioned forger Yves Chaudron to create six copies of the painting to sell in the U.S.while the location of the original was unclear.[55]However, the original painting remained in Europe. After having kept the Mona Lisa in his apartment for two years, Peruggia grew impatient and was caught when he attempted to sell it to directors of the Uffizi Gallery in Florence. It was exhibited in the Uffizi Gallery for over two weeks and returned to the Louvre on 4 January 1914.[56]Peruggia served six months in prison for the crime and was hailed for his patriotism in Italy.[54]
Before its 1911 theft, the Mona Lisa was not widely known outside the art world. It was not until the 1860s that some critics, a thin slice of the French intelligentsia, began to hail it as a masterwork of Renaissance painting.[57]Even in 1911, it was not popular among the lay public before the theft.[58]
In 1956, part of the painting was damaged when a vandal threw acid at it.[59] On 30 December of that year, a rock was thrown at the painting, dislodging a speck of pigment near the left elbow, later restored.[60]
The use of bulletproof glass has shielded the Mona Lisa from subsequent attacks. In April 1974, while the painting was on display at the Tokyo National Museum, a woman sprayed it with red paint as a protest against that museum’s failure to provide access for disabled people.[61] On 2 August 2009, a Russian woman, distraught over being denied French citizenship, threw a ceramic teacup purchased at the Louvre; the vessel shattered against the glass enclosure.[62][63] In both cases, the painting was undamaged.
Aesthetics
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
Detail of the background (right side)
The Mona Lisa bears a strong resemblance to many Renaissance depictions of the Virgin Mary, who was at that time seen as an ideal for womanhood.[64]
The woman sits markedly upright in a « pozzetto » armchair with her arms folded, a sign of her reserved posture. Her gaze is fixed on the observer. The woman appears alive to an unusual extent, which Leonardo achieved by his method of not drawing outlines (sfumato). The soft blending creates an ambiguous mood « mainly in two features: the corners of the mouth, and the corners of the eyes ».[67]
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
Detail of Lisa’s hands, her right hand resting on her left. Leonardo chose this gesture rather than a wedding ring to depict Lisa as a virtuous woman and faithful wife.[68]
The painting was one of the first portraits to depict the sitter in front of an imaginary landscape, and Leonardo was one of the first painters to use aerial perspective.[69] The enigmatic woman is portrayed seated in what appears to be an open loggia with dark pillar bases on either side. Behind her, a vast landscape recedes to icy mountains. Winding paths and a distant bridge give only the slightest indications of human presence. Leonardo has chosen to place the horizon line not at the neck, as he did with Ginevra de’ Benci, but on a level with the eyes, thus linking the figure with the landscape and emphasizing the mysterious nature of the painting.[66]
Mona Lisa has no clearly visible eyebrows or eyelashes. Some researchers claim that it was common at this time for genteel women to pluck these hairs, as they were considered unsightly.[70][71] In 2007, French engineer Pascal Cotte announced that his ultra-high resolution scans of the painting provide evidence that Mona Lisa was originally painted with eyelashes and with visible eyebrows, but that these had gradually disappeared over time, perhaps as a result of overcleaning.[72] Cotte discovered the painting had been reworked several times, with changes made to the size of the Mona Lisa’s face and the direction of her gaze. He also found that in one layer the subject was depicted wearing numerous hairpins and a headdress adorned with pearls which was later scrubbed out and overpainted.[73]
There has been much speculation regarding the painting’s model and landscape. For example, Leonardo probably painted his model faithfully since her beauty is not seen as being among the best, « even when measured by late quattrocento (15th century) or even twenty-first century standards. »[74] Some art historians in Eastern art, such as Yukio Yashiro, argue that the landscape in the background of the picture was influenced by Chinese paintings,[75] but this thesis has been contested for lack of clear evidence.[75]
Research in 2003 by Professor Margaret Livingstone of Harvard University said that Mona Lisa’s smile disappears when observed with direct vision, known as foveal. Because of the way the human eye processes visual information, it is less suited to pick up shadows directly; however, peripheral vision can pick up shadows well.[76]
Research in 2008 by a geomorphology professor at Urbino Universityand an artist-photographer revealed likenesses of Mona Lisa‘s landscapes to some views in the Montefeltro region in the Italian provinces of Pesaro and Urbino, and Rimini.[77][78]
Conservation
The Mona Lisa has survived for more than 500 years, and an international commission convened in 1952 noted that « the picture is in a remarkable state of preservation. »[37] This is partly due to a variety of conservation treatments the painting has undergone. A detailed analysis in 1933 by Madame de Gironde revealed that earlier restorers had « acted with a great deal of restraint. »[37] Nevertheless, applications of varnish made to the painting had darkened even by the end of the 16th century, and an aggressive 1809 cleaning and revarnishing removed some of the uppermost portion of the paint layer, resulting in a washed-out appearance to the face of the figure. Despite the treatments, the Mona Lisa has been well cared for throughout its history, and although the panel’s warping caused the curators « some worry »,[79] the 2004–05 conservation team was optimistic about the future of the work.[37]
Poplar panel
At some point, the Mona Lisa was removed from its original frame. The unconstrained poplar panel warped freely with changes in humidity, and as a result, a crack developed near the top of the panel, extending down to the hairline of the figure. In the mid-18th century to early 19th century, two butterfly-shaped walnut braces were inserted into the back of the panel to a depth of about one third the thickness of the panel. This intervention was skilfully executed, and successfully stabilized the crack. Sometime between 1888 and 1905, or perhaps during the picture’s theft, the upper brace fell out. A later restorer glued and lined the resulting socket and crack with cloth.[citation needed]
The picture is kept under strict, climate-controlled conditions in its bulletproof glass case. The humidity is maintained at 50% ±10%, and the temperature is maintained between 18 and 21 °C. To compensate for fluctuations in relative humidity, the case is supplemented with a bed of silica gel treated to provide 55% relative humidity.[37]
Frame
Because the Mona Lisa‘s poplar support expands and contracts with changes in humidity, the picture has experienced some warping. In response to warping and swelling experienced during its storage during World War II, and to prepare the picture for an exhibit to honour the anniversary of Leonardo’s 500th birthday, the Mona Lisa was fitted in 1951 with a flexible oak frame with beech crosspieces. This flexible frame, which is used in addition to the decorative frame described below, exerts pressure on the panel to keep it from warping further. In 1970, the beech crosspieces were switched to maple after it was found that the beechwood had been infested with insects. In 2004–05, a conservation and study team replaced the maple crosspieces with sycamore ones, and an additional metal crosspiece was added for scientific measurement of the panel’s warp.[citation needed]
The Mona Lisa has had many different decorative frames in its history, owing to changes in taste over the centuries. In 1909, the Comtesse de Béhague gave the portrait its current frame,[80] a Renaissance-era work consistent with the historical period of the Mona Lisa. The edges of the painting have been trimmed at least once in its history to fit the picture into various frames, but no part of the original paint layer has been trimmed.[37]
Cleaning and touch-up
The first and most extensive recorded cleaning, revarnishing, and touch-up of the Mona Lisa was an 1809 wash and revarnishing undertaken by Jean-Marie Hooghstoel, who was responsible for restoration of paintings for the galleries of the Musée Napoléon. The work involved cleaning with spirits, touch-up of colour, and revarnishing the painting. In 1906, Louvre restorer Eugène Denizard performed watercolour retouches on areas of the paint layer disturbed by the crack in the panel. Denizard also retouched the edges of the picture with varnish, to mask areas that had been covered initially by an older frame. In 1913, when the painting was recovered after its theft, Denizard was again called upon to work on the Mona Lisa. Denizard was directed to clean the picture without solvent, and to lightly touch up several scratches to the painting with watercolour. In 1952, the varnish layer over the background in the painting was evened out. After the second 1956 attack, restorer Jean-Gabriel Goulinat was directed to touch up the damage to Mona Lisa‘s left elbow with watercolour.[37]
In 1977, a new insect infestation was discovered in the back of the panel as a result of crosspieces installed to keep the painting from warping. This was treated on the spot with carbon tetrachloride, and later with an ethylene oxide treatment. In 1985, the spot was again treated with carbon tetrachloride as a preventive measure.[37]
On 6 April 2005—following a period of curatorial maintenance, recording, and analysis—the painting was moved to a new location within the museum’s Salle des États. It is displayed in a purpose-built, climate-controlled enclosure behind bulletproof glass.[81] Since 2005 the painting has been illuminated by an LED lamp, and in 2013 a new 20 watt LED lamp was installed, specially designed for this painting. The lamp has a colour rendering index up to 98, and minimizes infrared and ultravioletradiation which could otherwise degrade the painting.[82] The renovation of the gallery where the painting now resides was financed by the Japanese broadcaster Nippon Television.[83] About 6 million people view the painting at the Louvre each year.[25]
Fame
Giacobbe Giusti, LEONARDO DA VINCI: MONA LISA
2014: Mona Lisa is among the greatest attractions in the Louvre.
Today the Mona Lisa is considered the most famous painting in the world, but until the 20th century it was simply one among many highly regarded artworks.[84]Once part of King Francis I of France‘s collection, the Mona Lisa was among the first artworks to be exhibited in Louvre, which became a national museum after the French Revolution. From the 19th century Leonardo began to be revered as a genius and the painting’s popularity grew from the mid-19th century when French intelligentsia developed a theme that it was mysterious and a representation of the femme fatale.[85] The Baedeker guide in 1878 called it « the most celebrated work of Leonardo in the Louvre »,[86] but the painting was known more by the intelligentsia than the general public.[citation needed]
The 1911 theft of the Mona Lisa and its subsequent return was reported worldwide, leading to a massive increase in public recognition of the painting. During the 20th century it was an object for mass reproduction, merchandising, lampooning and speculation, and was claimed to have been reproduced in « 300 paintings and 2,000 advertisements ».[86]It has been said that the Mona Lisa was regarded as « just another Leonardo until early last century, when the scandal of the painting’s theft from the Louvre and subsequent return kept a spotlight on it over several years. »[87]
From December 1962 to March 1963, the French government lent it to the United States to be displayed in New York City and Washington, D.C.[88][89] It was shipped on the new liner SS France.[90] In New York an estimated 1.7 million people queued « in order to cast a glance at the Mona Lisa for 20 seconds or so. »[86] While exhibited in the Metropolitan Museum of Art, the painting was almost drenched in water because of a faulty sprinkler, but the bullet-proof glass case which encased the painting protected it.[91]
In 1974, the painting was exhibited in Tokyo and Moscow.[92]
In 2014, 9.3 million people visited the Louvre.[93] Former director Henri Loyrette reckoned that « 80 percent of the people only want to see the Mona Lisa. »[94]
Financial worth
Before the 1962–1963 tour, the painting was assessed for insurance at $100 million. The insurance was not bought. Instead, more was spent on security.[95] Adjusted for inflation using the US Consumer Price Index, $100 million in 1962 is around $782 million in 2015[96] making it, in practice, by far the most valued painting in the world.
In 2014, a France 24 article suggested that the painting could be sold to help ease the national debt, although it was noted that the Mona Lisa and other such art works were prohibited from being sold due to French heritage law, which states that « Collections held in museums that belong to public bodies are considered public property and cannot be otherwise. »[97]
Before its completion the Mona Lisa had already begun to influence contemporary Florentine painting. Raphael, who had been to Leonardo’s workshop several times, promptly used elements of the portrait’s composition and format in several of his works, such as Young Woman with Unicorn (c. 1506[98]), and Portrait of Maddalena Doni (c. 1506). Celebrated later paintings by Raphael, La velata(1515–16) and Portrait of Baldassare Castiglione (c. 1514–15), continued to borrow from Leonardo’s painting. Zollner states that « None of Leonardo’s works would exert more influence upon the evolution of the genre than the Mona Lisa. It became the definitive example of the Renaissance portrait and perhaps for this reason is seen not just as the likeness of a real person, but also as the embodiment of an ideal. »[99]
Early commentators such as Vasari and André Félibien praised the picture for its realism, but by the Victorian era writers began to regard the Mona Lisa as imbued with a sense of mystery and romance. In 1859 Théophile Gautier wrote that the Mona Lisa was a « sphinx of beauty who smiles so mysteriously » and that « Beneath the form expressed one feels a thought that is vague, infinite, inexpressible. One is moved, troubled … repressed desires, hopes that drive one to despair, stir painfully. » Walter Pater‘s famous essay of 1869 described the sitter as « older than the rocks among which she sits; like the vampire, she has been dead many times, and learned the secrets of the grave; and has been a diver in the deep seas, and keeps their fallen day about her. »[100] By the early 20th century some critics started to feel the painting had become a repository for subjective exegeses and theories,[101] and upon the painting’s theft in 1911, Renaissance historian Bernard Berenson admitted that it had « simply become an incubus, and I was glad to be rid of her. »[101][102]
The avant-garde art world has made note of the undeniable fact of the Mona Lisa‘s popularity. Because of the painting’s overwhelming stature, Dadaists and Surrealists often produce modifications and caricatures. Already in 1883, Le rire, an image of a Mona Lisa smoking a pipe, by Sapeck (Eugène Bataille), was shown at the « Incoherents » show in Paris. In 1919, Marcel Duchamp, one of the most influential modern artists, created L.H.O.O.Q., a Mona Lisaparody made by adorning a cheap reproduction with a moustache and goatee. Duchamp added an inscription, which when read out loud in French sounds like « Elle a chaud au cul » meaning: « she has a hot ass », implying the woman in the painting is in a state of sexual excitement and intended as a Freudian joke.[107] According to Rhonda R. Shearer, the apparent reproduction is in fact a copy partly modelled on Duchamp’s own face.[108]
Salvador Dalí, famous for his surrealist work, painted Self portrait as Mona Lisa in 1954.[109] In 1963 following the painting’s visit to the United States, Andy Warhol created serigraph prints of multiple Mona Lisas called Thirty are Better than One, like his works of Marilyn Monroe (Twenty-five Coloured Marilyns, 1962), Elvis Presley (1964) and Campbell’s soup (1961–62).[110] The Mona Lisa continues to inspire artists. A French urban artist known pseudonymously as Invader has created versions on city walls in Paris and Tokyo using a mosaic style.[111] A collection of Mona Lisa parodies may be found on YouTube.[112] A 2014 New Yorker magazine cartoon parodies the supposed enigma of the Mona Lisa smile in an animation showing progressively maniacal smiles.
A version of Mona Lisaknown as Mujer de mano de Leonardo Abince (« Woman by Leonardo da Vinci’s hand ») held in Madrid’s Museo del Prado was for centuries considered to be a work by Leonardo. However, since its restoration in 2012 it is considered to have been executed by one of Leonardo’s pupils in his studio at the same time as Mona Lisa was being painted.[113] Their conclusion, based on analysis obtained after the picture underwent extensive restoration, that the painting is probably by Salaì (1480–1524) or by Melzi (1493–1572). This has been called into question by others.[114]
The restored painting is from a slightly different perspective than the original Mona Lisa, leading to the speculation that it is part of the world’s first stereoscopic pair.[115][116][117] However, a more recent report has demonstrated that this stereoscopic pair in fact gives no reliable stereoscopic depth.[118]
A version of the Mona Lisa known as the Isleworth Mona Lisa and also known as the Earlier Mona Lisa was first bought by an English nobleman in 1778 and was rediscovered in 1913 by Hugh Blaker, an art connoisseur. The painting was presented to the media in 2012 by the Mona Lisa Foundation.[119] It is a painting of the same subject as Leonardo da Vinci’s Mona Lisa. The painting is claimed by a majority of experts to be mostly an original work of Leonardo dating from the early 16th century.[120][29][121][122][123][124][125][31][126][6][7][45] Other experts, including Zöllner and Kemp, deny the attribution.[127][124]
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Leurs origines remonte à Charlemagne, conquérant d’un puissant empire, consacré par l’autorité papale en 800, qui englobait entre autres la France, l’Allemagne, et l’Italie actuelle, mais la tradition germanique s’ancre à partir du règne d’Otton le Grand.
Après la fin du Saint-Empire en 1806, les regalia sont réinvestis par la couronne autrichienne puis sont l’objet de dispute et servent d’outils propagandistes au moment de la formation du Troisième Reich.
« Reproduction des ornements et regalia impériaux », gravure de la fin du XVIIe siècle représentant l’empereur Sigismond (Bibliothèque princière Waldeck).
Giacobbe Giusti, Regalia du Saint-Empire
« Reproduction du grand Sanctuaire à Nuremberg » avec la Sainte Lance (gravure, fin XVIIe).
Giacobbe Giusti, Regalia du Saint-Empire
Les Regalia reproduits dans une encyclopédie allemande (Leipzig, 1909).
En 800, Charlemagne est sacré empereur à Rome : il n’existe aucune trace certaine de la couronne ou des insignes impériaux du souverain. Après le partage de l’empire, et la disparition d’un pouvoir central, s’enracine alors un mythe qui va prendre deux aspects : le pouvoir royal en France va bâtir ses regalia sur d’hypothétiques couronnes de Charlemagne, tandis que les souverains centraux européens, vont en fonder d’autres, chacun se déclarant détenteur des insignes originaux.
Les noms utilisés pour ses regalia sont, en latin, insignia imperialia, regalia insignia, insignia imperalis capellae quae regalia dicuntur. Le latin est la lingua franca en Europe jusqu’au XVe siècle.
En allemand, ils vont être appelés Reichsinsignien (insignes impériaux), Reichskleinodien (joyaux impériaux) réunis au sein du Reichsschatz (trésor impérial).
Un inventaire du château de Trifelsen 1246 les désigne comme signes impériaux (Keiserliche Zeichen). Les termes employés sont liés à la personne ou a la fonction. De plus, jusqu’à Charles IV, des éléments sont ajoutés, d’autres retirés ou échangés.
Histoire
Plusieurs inventaires médiévaux sont conservés avec cinq ou six objet mentionnés. Dans ses Speculum regum (1183), Godefroi de Viterbe en énumère cinq : Sainte Croix (reliques de la Vraie Croix), Sainte Lance, Sceptre, Orbe et Épée. L’épée ou glaive n’est pas mentionnée dans d’autres listes. Il est ardu d’identifier certains objets dans une source du Haut Moyen Âge ou du Moyen Âge tardif dans la mesure où les mentions encore plus tardive parlent de couronnement in kaiserliche Insignien gekleidet, c’est-à-dire « vêtu d’insignes impériaux » sans plus de précisions. Par contre, l’identification de la Sainte Lance et de la Croix impériale sont évidentes, ces objets étant antérieurs à la période médiévale et abondamment cités. Jusqu’au xve siècle, les regalia n’ont pas de lieu fixe car ils accompagnent l’empereur lors de ses voyages à travers le royaume. La couronne du Saint-Empireremonterait à la fin du Xe siècle, mais sa forme originelle diffère sensiblement de l’actuelle.
Conservés depuis 1424 dans la ville impériale de Nuremberg en Franconie, le Conseil de la ville, à l’approche des troupes françaises menaçantes, les fait transférer à Ratisbonne en 1796. Puis ils sont envoyés en 1800 à Vienne. La menace française s’approchant de la capitale, on les confie à un certain baron von Hügel jusqu’à ce que leur sécurité puisse être assurée. Après la dissolution du Saint Empire en 1806, von Hügel profite du flou juridique pour revendre les Reichskleinodien à l’empereur d’Autriche, qui refuse de les restituer plus tard à la ville de Nuremberg et les conserve dans la Chambre du Trésor(de) (Schatzkammer). Ils restent donc dans le palais du HofburgVienne comme propriété des Habsbourg puis, après la révolution de 1918, de l’État autrichien.
Les chausses et les gants ont été ajoutés au xiiie siècle.
Les insignes impériaux sont classés en deux ensembles selon le lieu où ils ont été conservés, de 1424 à 1796 à Nuremberg, ou jusqu’en 1794 à Aix-la-Chapelle.
Reliquaire avec un fragment de la nappe de la Cène
Daté de 1518, Nuremberg, par Hans Krug.
Collection présente à Vienne
Un exemple d’une Flügellanze à gauche, de facture carolingienne, similaire à la Heilige Lanze : des pièces latérales sont présentes à la base du fer.
Sainte Lance : une petite tige de fer a été insérée dans le fer de lance et maintenue par des fils d’argent et était considéré selon la tradition comme un des clous de la crucifixion de JésusNote 1
Des pièces conservées au Hofburg, la plus ancienne est probablement la Sainte Lance, qui remonte à Henri Ier de Germanie. C’est une Flügellanze, une lance comportant deux pièces latérales et opposées à la base du fer, d’époque carolingienne.
La couronne impériale est mentionnée par la poésie médiévale autour de 1200, en particulier par son joyau L’Orphelin, un diamant de grande taille.
Voyages
Giacobbe Giusti, Regalia du Saint-Empire
Ruines du cloître de Limburg, près de Bad Dürkheim, un des lieux de conservation identifiés.
Jusqu’au xve siècle, les insignes impériaux ne sont pas conservés dans un endroit fixe : ils accompagnent souvent le souverain dans ses voyages à travers l’Empire et leur possession est primordiale dans le cas de contestations de sa légitimité. Plusieurs places-fortes et lieux sûrs ont néanmoins été identifiés durant cette période :
le cloître de Limburg, dont il subsiste des ruines à Bad Dürkheim
le Harzburg, forteresse impériale près de Bad Harzburg
↑En 2003, pour la réalisation d’un documentaire, une expertise a été réalisée, par le Docteur Robert Feather, ingénieur métallurgiste britannique, qui a reçu du Musée de la Hofburg, l’autorisation d’examiner, non seulement la lance dans un environnement de laboratoire, mais à retirer les délicates bandes d’or de l’étui et les fils d’argent qui recouvrent la lance. L’expertise a été réalisée au moyen de la technique de la spectrométrie de fluorescence X. La date la plus probable de la fabrication du fer de lance se situerait autour du viie siècle apr. J.-C., (un siècle plus tôt que l’estimation précédente). Le Dr Feather a déclaré que la tige de fer de sept pouces de longueur (prétendue être un clou de la crucifixion), martelée dans la lame, et mise en valeur par de minuscules croix en laiton, contenait pourtant des traces de cobalt mais que ce morceau de fer ne pouvait pas provenir d’un clou romain du ier siècle apr. J.-C.
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The Babylonian threat to the Kingdom of Judah began as the Babylonian Empire conquered Assyria and rose to power from 612-609 BCE. Jerusalem surrendered without major bloodshed to Babylon in 597. An Israelite uprising brought the destruction of Nebuchadnezzar’s army upon Jerusalem in 586 BCE. The entire city, including the First Temple, was burned. Israelite aristocrats were taken captive to Babylon.
The Book of Ezekiel contains the first record of the New Jerusalem. Within Ezekiel 40-48, there is an extended and detailed description of the measurements of the Temple, its chambers, porticos, and walls. Ezekiel 48:30-35 contains a list of twelve Temple gates named for Israel’s tribes.
The Book of Zechariah[6] expands upon Ezekiel’s New Jerusalem. After the Second Temple was built after the exile, Jerusalem’s population was only a few hundred. There were no defensive city walls until 445 BCE.[7] In the passage, the author writes about a city wall of fire to protect the enormous population. This text demonstrates the beginning of a progression of New Jerusalem thought. In Ezekiel, the focus is primarily on the human act of Temple construction. In Zechariah, the focus shifts to God’s intercession in the founding of New Jerusalem.
New Jerusalem is further extrapolated in Isaiah,[8] where New Jerusalem is adorned with precious sapphires, jewels, and rubies. The city is described as a place free from terror and full of righteousness. Here, Isaiah provides an example of Jewish apocalypticism, where a hope for a perfected Jerusalem and freedom from oppression is revealed.
As the original New Jerusalem composition, Ezekiel functioned as a source for later works such as 4 Ezra, 2 Baruch, Qumran documents, and the Book of Revelation. These texts used similar measurement language and expanded on the limited eschatological perspective in Ezekiel.
Interpretation
Judaism sees the Messiah as a humanmale descendant of King David who will be anointed as the king of Israel and sit on the throne of David in Jerusalem. He will gather in the lost tribes of Israel, clarify unresolved issues of halakha, and rebuild the Holy Temple in Jerusalem according to the pattern shown to the prophet Ezekiel. During this time Jews believe an era of global peace and prosperity will be initiated, the nations will love Israel and will abandon their gods, turn toward Jerusalem, and come to the Holy Temple to worship the one God of Israel. Zechariah prophesied that any family among the nations who does not appear in the Temple in Jerusalem for the festival of Sukkoth will have no rain that year. Isaiah prophesied that the rebuilt Temple will be a house of prayer for all nations. The city of YHWH Shamma, the new Jerusalem, will be the gathering point of the world’s nations, and will serve as the capital of the renewed Kingdom of Israel. Ezekiel prophesied that this city will have 12 gates, one gate for each of the tribes of Israel. The book of Isaiah closes with the prophecy « And it will come to pass, that from one new moon to another, and from one sabbath to another, all flesh will come to worship before Me, says YHWH« .
Antiochene Persecutions, Hasmonean High Priesthood
The Animal Apocalypse within 1 Enoch (chapters 85-90), is another example where conflict sparks hopes for the New Jerusalem. First Enoch is an apocalyptic response to the persecutions under Seleucid Emperor Antiochus IV. In 167 BCE, Emperor Antiochus returned from fighting in Egypt to quell a revolt in Jerusalem led by Jason, the former High Priest. An agitated Antiochus imposed harsh restrictions on Jewish religion. Circumcision, feast celebration, Sabbath observance were all banned. Antiochus ordered the burning of Torah copies. Jews were required to eat pork. The worst oppression came in the desecration of the Temple. A polytheistic cult was formed, and worship of YHWH abolished. A statue to a Seleucid deity was constructed on the Jewish altar.
First Enoch was written in the wake of this calamity between 166 BCE-163 BCE. For the author of 1 Enoch, history is a steep descent into evil from the utopia in Eden. The author’s vision of the eschaton centers on the restoration of Jerusalem: “I saw until the owner of the sheep brought a house, new and larger and loftier than the former” (1 Enoch 90:29). In this New Jerusalem passage, the sheep are the Jewish people, the builder is the Lord, and the House is the Temple. During the same time period, the Dead Sea scrolls contain a New Jerusalem tradition formed out of strife. As a tiny Jewish sect living in the caves of Qumran, the Essenes opposed Temple leadership and the High Priesthood in Jerusalem. Their condemnation of the Temple focused on criticizing High Priests. They were also frustrated that Judean Kings were also given the role of High Priest.[dubious– discuss]The Essenes were not against the institution of the Temple and its cult per se. The Essenes at Qumran predicted the reunified twelve tribes to rise together against Roman occupation and incompetent Temple leadership and re-establish true Temple worship.
The surviving New Jerusalem texts in Qumran literature focus specifically on the twelve city gates, and on the dimensions of the entire new city. In 4Q554, the gates of Simeon, Joseph, and Reuben are mentioned in this partial fragment. For the author of this fragment, the New Jerusalem’s twelve gates signify the reunification of the twelve tribes of Israel. In 5Q15, the author accompanies an angel who measures the blocks, houses, gates, avenues, streets, dining halls, and stairs of the New Jerusalem. There are two important points to consider regarding the Qumran Essenes. First, we do not have enough scroll fragments to completely analyze their New Jerusalem ideologies. Second, based on the evidence available, the Essenes rebelled against Temple leadership, not the Temple itself. Their vision of the New Jerusalem looked for the reunification of the twelve tribes around an eschatological Temple.
4 Ezra, 2 Baruch, 3 Baruch
As evidenced above, the historical progression of New Jerusalem language is specifically tied to conflict. The Babylonian Exile, Antiochene persecutions, and corrupt leadership in Jerusalem incited apocalyptic responses with a vision for a New Jerusalem. In the 1st century CE, an even greater conflict exploded in Iudaea province; the Roman destruction of Jerusalem, as well as the other Roman-Jewish Wars. Subsequent apocalyptic responses fundamentally altered the New Jerusalem eschatology for Jews and Early Christians.
At the core, apocalypses are a form of theodicy. They respond to overwhelming suffering with the hope of divine intercession and a perfected World to Come. The destruction of the Second Temple in 70 meant an end to Second Temple Judaism. Naturally, apocalyptic responses to the disaster followed. This section will first cover 4 Ezraand 2 Baruch. Fourth Ezra and 2 Baruch are important for two reasons. First, they look for a Temple in Heaven, not the eschaton. Second, these texts exhibit the final new Temple texts in Judaism. Jewish texts like 3 Baruch began to reject a restored Temple completely. However, these texts were deemed to be apocryphal by the Rabbis who maintained the belief in a Third Temple as central to Rabbinic Judaism.
The Jewish apocalypse of 4 Ezra is a text contained in the apocryphal book 2 Esdras. The genre of 4 Ezra is historical fiction, set thirteen years after the Babylonian destruction of Jerusalem. Fourth Ezra is dated approximately in 83 CE, thirteen years after the Roman destruction of Jerusalem. The story follows Ezra’s period of mourning following Jerusalem’s fall. Ezra is Job-like in his criticism of God’s allowance of Jerusalem’s downfall.
In Ezra’s deep state of grief, he meets a woman lamenting over Jerusalem. Ezra consoles the woman, and tells her to, “shake off your great sadness, and lay aside your many sorrows… the Most High may give you rest.” (4 Ezra 10:24). Suddenly, the woman is transfigured in an array of bright lights. She transforms into the New Jerusalem being rebuilt. As a bereaved widow she convinced Ezra to apply solace to himself through the image of a New Jerusalem.
Fourth Ezra has two clear messages. First, do not grieve excessively over Jerusalem. Second, Jerusalem will be restored as a heavenly kingdom. Fourth Ezra also uses the title “Most High,” throughout the apocalypse to emphasis that the Lord will once again reign and reside in Jerusalem.
The apocalypse of 2 Baruch is a contemporary narrative of 4 Ezra. The text also follows the same basic structure 4 Ezra: Job-like grief, animosity towards the Lord, and the rectification of Jerusalem that leads to the comfort of the Job-figure. Second Baruch is historical fiction, written after the Roman destruction but set before the fall of Jerusalem to the Babylonians.
Baruch is distressed when the Lord informs him of Jerusalem’s impending doom. Baruch responds with several theological questions for God. For this study, Baruch’s inquiry about the future of Israel and the honor of the Lord are most pertinent (2 Baruch 3:4-6). Baruch learns that the Lord will destroy the city, not the enemy. Baruch also learns of a pre-immanent heavenly Temple: “[The Temple] was already prepared from the moment I decided to create paradise.” And I showed it to Adam before he sinned.” (2 Baruch 4:3). This Temple was created before Adam, and shown to him before Adam’s fall.
Two important conclusions come from 2 Baruch. First, the author dismisses hopes for an earthly re-built Temple. The focus is entirely on the heavenly Temple that pre-dated the Garden of Eden. This may be a device to express the supremacy of the heavenly Temple as a sanctuary built before Eden (the traditional location of the earthly Temple). Second, Baruch believes that restoration for the people of Israel exists in heaven, not on earth.
The apocalypse of 3 Baruch is the anomaly among post-revolt New Jerusalem texts. Unlike 2 Baruch and 4 Ezra, the text exemplifies an alternative tradition that lacks a restored Temple. Like other apocalypses, 3 Baruch still mourns over the Temple, and re-focuses Jews to the heavens. Yet 3 Baruch finds that the Temple is ultimately unnecessary. This move could be polemical against works which afforded the Temple with excessive veneration. In the passage, an angel comes to Baruch and consoles him over Jerusalem: “Where is their God? And behold as I was weeping and saying such things, I saw an angel of the Lord coming and saying to me: Understand, O man, greatly beloved, and trouble not thyself so greatly concerning the salvation of Jerusalem.” (3 Baruch 1:3)
Third Baruch certainly mourns over the Temple. Yet 3 Baruch is not ultimately concerned with the lack of a Temple. This text goes along with Jeremiah and Sibylline Oracles 4 to express a minority tradition within Jewish literature. In the first Christian apocalypse, the Book of Revelation coincides with this perspective on Jerusalem. The study will now move to early Christian perspectives on the Temple and the apocalyptic response in Revelation.[9][10][11][12][13][14][15][16]
Since Christianity originated from Judaism, the history of Jewish places of worship and the currents of thought in ancient Judaism described above served in part as the basis for the development of the Christian conception of the New Jerusalem. Christians have always placed religious significance on Jerusalem as the site of The Crucifixion and other events central to the Christian faith.
Based on the Book of Revelation, premillennialism holds that, following the end times and the second creation of heaven and earth (see The New Earth), the New Jerusalem will be the earthly location where all true believers will spend eternity with God. The New Jerusalem is not limited to eschatology, however. Many Christians view the New Jerusalem as a current reality, that the New Jerusalem is the consummation of the Body of Christ, the Church and that Christians already take part in membership of both the heavenly Jerusalem and the earthly Church in a kind of dual citizenship.[17] In this way, the New Jerusalem represents to Christians the final and everlasting reconciliation of God and His chosen people, « the end of the Christian pilgrimage. »[17] As such, the New Jerusalem is a conception of Heaven, see also Heaven (Christianity).
Interpretation
Christianity interprets the city as a physical and/or spiritual restoration or divine recreation of the city of Jerusalem. It is also interpreted by many Christian groups as referring to the Church to be the dwelling place of the saints.
Many traditions based on biblical scripture and other writings in the Jewish and Christian religions, such as Protestantism, and Orthodox Judaism, expect the literal renewal of Jerusalem to some day take place at the Temple Mount in accordance with various prophecies. Dispensationalists believe in a literal New Jerusalem that will come down out of Heaven, which will be an entirely new city of incredible dimensions. Other sects, such as various Protestant denominations, modernist branches of Christianity, Mormonism and Reform Judaism, view the New Jerusalem as figurative, or believe that such a renewal may have already taken place, or that it will take place at some other location besides the Temple Mount.
It is important to distinguish between « the camp of the saints, and the beloved city » spoken of in Revelation 20:9, and the New Jerusalem of chapter 21. Rev. 20:9 refers to an earthly City, description and purpose of which is found in book of Ezekiel, starting with chapter 36 and ending with chapter 48. One of the most obvious differences is, the dimensions of the New Jerusalem of Rev. 21 are 1000 times bigger than dimensions of the city in Ezekiel 48 (and in Rev. 20:9) New Jerusalem of Revelation 21 is 2225 km. in length, width, and height, a city of these gigantic proportions can not be located on this earth, but as stated in ch. 21 comes down from heaven on to the new earth.
The Book of Revelation
Giacobbe Giusti, New Jerusalem
Folio 55r of the Bamberg Apocalypse depicts the angel showing John the New Jerusalem, with the Lamb of God at its center.
Introduction to the City
The term New Jerusalemoccurs twice in the New Testament, in verses Rev 3:12 and Rev 21:2 of the Book of Revelation. A large portion of the final two chapters of Revelation deals with John of Patmos’ vision of the New Jerusalem. He describes the New Jerusalem as « ‘the bride, the wife of the Lamb' », where the river of the Water of Life flows (22:1).
After John witnesses the new heaven and a new earth « that no longer has any sea », an angel takes him « in the Spirit » to a vantage point on « a great and high mountain » to see New Jerusalem’s descendants. The enormous city comes out of heaven down to the New Earth. John’s elaborate description of the New Jerusalem retains many features of the Garden of Eden and the paradise garden, such as rivers, a square shape, a wall, and the Tree of Life.
Description of the City
According to John, the New Jerusalem is « pure gold, like clear glass » and its « brilliance [is] like a very costly stone, as a stone of crystal-clear jasper. » The street of the city is also made of « pure gold, like transparent glass ». The base of the city is laid out in a square and surrounded by a wall made of jasper. It says in Revelation 21:16 that the height, length, and width are of equal dimensions – as it was with the Holy of Holies in the Tabernacle and First Temple – and they measure 12,000 furlongs (which is approximately 1500.3 miles, or 1 furlong = approx 220 yards). John writes that the wall is 144 cubits, which is assumed to be the thickness since the length is mentioned previously. 144 cubits are about equal to 65 meters, or 72 yards. It is important to note that 12 is the square root of 144. The number 12 was very important to early Jews and Christians, and represented the 12 tribes of Israel and 12 Apostles of Jesus Christ. The four sides of the New City represent the four cardinal directions (North, South, East, and West.) In this way, New Jerusalem is thought of as an inclusive place, with the 12 gates accepting all of the 12 tribes of Israel from all corners of the earth.
There is no temple building in the New Jerusalem. God and the Lamb are the city’s temple, since they are worshiped everywhere. Revelation 22 goes on to describe a river of the water of life that flows down the middle of the great street of the city from the Throne of God. The tree of life grows in the middle of the street and to both sides of the river. The tree bears twelve (kinds of) fruit and yields its fruit every month. According to John, « The leaves of the tree were for healing (those of all) nations. » This inclusion of the tree of life in the New Jerusalem harkens back to the Garden of Eden. The fruit the tree bears may be the fruit of life.
John states that the New Jerusalem will be free of sin. The servants of God will have theosis (i.e. the power or likeness of God, that is « in his image » of holiness) and « His name will be on their foreheads. » Night will no longer fall, and the inhabitants of the city will « have need (of) no lamp nor light of the sun, for the Lord God gives them light. » John ends his account of the New Jerusalem by stressing its eternal nature: « And they shall reign forever and ever. »
There are twelve (12) gates hanging from the wall of the New City of Jerusalem. These 12 gates are oriented in groups of three and face the four cardinal directions of the compass needle: the north, south, east and west. There is an angel at each gate, residing in a gatehouse. The 12 gates are each made of a ‘single’ pearl, giving these the name « pearly gates« . The names of the twelve tribes of Israel are written on the 12 gates.
The New Jerusalem gates may bear some relation to the gates mentioned in Enoch, Chapters 33 – 35, where the prophet, Enoch reports that from each of the four « heavenly gates – opening in heaven – three (new gates) were seen distinctly separating (off, as if) the extremities of the whole earth » [were pulling apart each of the four gates into three new ones]. Thus, the four gates were each replaced by three new ones, totaling twelve [i.e. 3 x 4 = 12] gates in all. [33, 3.][ref. Laurence translation, Book of Enoch.]
Geometry
Giacobbe Giusti, New Jerusalem
The angel measures the New Jerusalem with the rod or reed. Note the Lamb of God and the twelve sets of figures, gates, and stones.
In 21:16, the angel measures the city with a golden rod or reed, and records it as 12,000 stadia by 12,000 stadia at the base, and 12,000 stadia high. A stadion is usually stated as 185 meters, or 607 feet, so the base has dimensions of about 2220 km by 2220 km, or 1380 miles by 1380 miles. In the ancient Greek system of measurement, the base of the New Jerusalem would have been equal to 144 million square stadia, 4.9 million square kilometers or 1.9 million square miles (roughly midway between the sizes of Australia and India). If rested on the Earth, its ceiling would be inside the upper boundary of the exosphere but outside the lower boundary.[18] By way of comparison, the International Space Station maintains an orbit with an altitude of about 386 km (240 mi) above the earth.[19]
Revelation 21:22
The Book of Revelation was composed during the end of the 1st century AD, sometime during the later end of the reign of Emperor Nero Domitius (54 to 68 CE). The work is addressed to the “seven churches that are in Asia” (1:4). Revelation is normally broken into three sections: the prologue (1:1-3:22), the visions (4:1-22:5), and the epilogue (22:6-20). This study is principally concerned with chapter 21.
The author of Revelation was both a Jew by birth and a believing Christian. For the author and the addressees of Revelation, they are searching for the Lord to vindicate them and judge the “inhabitants of the earth,” for their suffering (6:10). The fall of Jerusalem coupled with the Neronian persecutions form the tension within the subtext of Revelation.
Throughout Revelation, several references to the Temple are made REV 3:12,7:15,11:19,14:15,16:1. This Temple appears to be of heavenly origin. When the eschaton arrives in REV 21:1, the reader expects the temple to come down from heaven with the New Jerusalem. Revelation 21 even contains typical New Jerusalem terminology that accompanies a restored Temple. Specific measurements are given for the new city (Ezekiel 40-48, 4Q554), and the city is built with gold, sapphires, and emeralds (Isaiah, Tobit). In addition, 21:21 references the “twelve gates.” Revelation maintains another typical aspect of New Jerusalem tradition – the reunification of the twelve tribes of Israel (Ezekiel 48:33-34, 4Q554).
Verse 22 marks a sudden and remarkable shift in New Jerusalem apocalyptic rhetoric: “I saw no temple in the city, for its temple is the Lord God Almighty and the Lamb.” Following with the tradition of 3 Baruch and 4 Sibylline Oracles, Revelation foresees an eschaton without the Temple. Why has the Revelation suddenly denied an eschatological Temple? Verse 23 sheds light on this disparity.
Verse 23 proclaims, “And the city has no need of sun or moon to shine on it, for the glory of God is the light, and its lamp is the lamb.” For the author of Revelation, there is no need for a Temple because the Lord will be the New Jerusalem’s eternal light and Jesus (the lamb) will be its lamp. This re-interpretation utilizes Isaiah to make its case: “The LORD will be your everlasting light, and your God will be your glory. Your sun shall no more go down, or your moon withdraw itself; for the LORD will be your everlasting light, and your days of mourning shall be ended.” (Isaiah 60:19)
The Temple is discarded in the eschaton because the Lord will provide illumination for the New Jerusalem, and Christ will be the glory for its residents. Henceforth, Christians believed that the New Jerusalem no longer required a Temple. For Christians, their Lord sufficiently replaced the Temple.
New Jerusalem – Dead Sea Scrolls
Discovered among the Dead Sea Scrolls near Qumran, Israel, were fragments of a scroll which describes New Jerusalem in minute detail. The New Jerusalem Scroll (as it is called) appears to contain apocalyptic vision, although, being fragmented, it is hard to categorize. Written in Aramaic, the text describes a vast city, rectangular in shape, with twelve gates and encircled by a long wall. Similar descriptions appear in Ezekiel 40-48 and Revelation 21-22 and comparison to the Temple Scroll (also found near Qumran) shows many similarities despite no direct literary links between the two.
Montanism
From the middle of the 2nd century CE to the middle of the 6th century CE, the ancient Christian sect of Montanism, which spread all over the Roman Empire, expected the New Jerusalem to descend to earth at the neighboring Phrygian towns of Pepuza and Tymion. In late antiquity, both places attracted crowds of pilgrims from all over the Roman Empire. Pepuza was the headquarters of the Montanist church. The Montanist patriarch resided at Pepuza. Women played an emancipated role in Montanism, serving as priests and also bishops. In the 6th century CE, this church became extinct.
Since 2001, Peter Lampe of the University of Heidelberg has directed annual archaeological campaigns in Phrygia, Turkey. During these interdisciplinary campaigns, together with William Tabbernee of Tulsa, numerous unknown ancient settlements were discovered and archaeologically documented. Two of them are the best candidates so far in the search for the identification of the two holy centers of ancient Montanism, Pepuza and Tymion, the sites of the expected descent of the New Jerusalem. Scholars had searched for these lost sites since the 19th century.
The ancient settlement discovered and identified as Pepuza by William Tabbernee and Peter Lampe was settled continuously from Hellenistic times to Byzantine times. In Byzantine times, an important rock-cut monastery belonged to the town. The town is in the Phrygian Karahallıarea, near the village of Karayakuplu (Uşak Province, Aegean Region, Turkey). The ancient site of Tymion identified by Peter Lampe is located not far away at the Turkish village of Şükranje. For the Montanists, the high plane between Pepuza and Tymion was an ideal landing place for the heavenly New Jerusalem.
theologians deem more appropriate that there should be a special and glorious abode, in which the blessed have their peculiar home and where they usually abide, even though they be free to go about in this world. For the surroundings in the midst of which the blessed have their dwelling must be in accordance with their happy state; and the internal union of charity which joins them in affection must find its outward expression in community of habitation. At the end of the world, the earth together with the celestial bodies will be gloriously transformed into a part of the dwelling-place of the blessed (Revelation 21). Hence there seems to be no sufficient reason for attributing a metaphorical sense to those numerous utterances of the Bible which suggest a definite dwelling-place of the blessed. Theologians, therefore, generally hold that the heaven of the blessed is a special place with definite limits. Naturally, this place is held to exist, not within the earth, but, in accordance with the expressions of Scripture, without and beyond its limits. All further details regarding its locality are quite uncertain. The Church has decided nothing on this subject.
Eastern Christianity
Emperor Lalibela of Ethiopia built the city of Lalibela as a new reconstructed Jerusalem in response to the Muslim capture of Jerusalem by Saladin‘s forces in 1187. The Eastern Orthodox Churchteaches that the New Jerusalem is the City of God that will come down from heaven in the manner described in the Book of the Apocalypse (Revelation). The Church is an icon of the heavenly Jerusalem.[20] The New Jerusalem Monastery in Russia takes its name from the heavenly Jerusalem.
Puritans
The New Jerusalem was an important theme in the Puritancolonization of New England in the 17th century. The Puritans were inspired by the passages in Revelation about the New Jerusalem, which they interpreted as being a symbol for the New World. The Puritans saw themselves as the builders of the New Jerusalem on earth. This idea was foundational to American nationalism.[21]
Swedenborgian
Ecclesiastic Swedenborgians often refer to their organizations as part of or contributing to the New Jerusalem as explained by Emanuel Swedenborg in such books as New Jerusalem and Its Heavenly Doctrine, Apocalypse Revealed, and Apocalypse Explained. According to Swedenborg, the New Jerusalem described in the Bible is a symbol for a new dispensation that was to replace/restore Christianity. Also according to these books, this New Jerusalem began to be established around 1757. This stems from their belief that Jerusalem itself is a symbol of the Church, and so the New Jerusalem in the Bible is a prophetic description of a New Church.
In the Latter Day Saint movement, the New Jerusalem is viewed as a physical kingdom that will be built in North America,[22] centered on Independence, Missouri.[23] The movement refers to the New Jerusalem as Zion. The movement’s founder, Joseph Smith, attempted to establish this Zion in the early 1830s, and drafted a detailed plat of Zion based on his view of the biblical description of the New Jerusalem, including plans for a temple. However, due to political and military rivalry with other Missouri settlers, members of the religion were expelled from Missouri in 1838. Subsequently, several Latter Day Saint denominations have established residence there, believing that it will be the center of God’s Millennial kingdom.
Jehovah’s Witnesses believe that New Jerusalem is made up of anointed Christians serving in heaven as Kings and Priests over the earth. The number of these King-Priests will eventually number 144,000. This belief is based on New Jerusalem being described as « a bride adorned for her husband » REV 21:2, and this same « bride » then being described as « the Lamb’s wife » REV 21:9-10. REV 14:1is seen as depicting a wife-like relationship between the Lamb and the 144,000, therefore linking the identity of the 144,000 with the Lamb’s wife and in-turn also that of New Jerusalem.[24]
Universal Friends
The religious community known collectively as the Publick Universal Friends that gathered around the QuakerevangelistJemima Wilkinsonin the late 18th century was one of religious righteousness and devotion to Christian ideals. In 1790, Jemima founded a community she called New Jerusalem, planned as a communal society where righteousness would prevail. It was situated in the wilderness of New York’sFinger Lakes region, in what is today the town of Jerusalem, New York. The society faded away after the death of their leader, and so died the prospect of a community based on the will of God.
British Israelism
Richard Brothers, the originator of British Israelism, developed a viewpoint that the British are descended from the Lost Tribes of Israel, and that the capital city of Britain should therefore be re-modeled as a New Jerusalem for the coming Age of Enlightenment. Supposedly this idea was already present in 6th Century England, and that it reached its height of influence during and just after the First World War; certain buildings, such as St Paul’s Cathedral, supposedly contain elements of the plan in their design.
Bedwardism
Bedwardism, a Jamaican religious movement active between 1889 and 1921, asserted that August Town (a suburb of Kingston) was the New Jerusalem for the western hemisphere, and that Union Camp, where Alexander Bedward‘s Free Baptist Church was located, was Zion. This movement fell apart when Bedward was arrested in 1921.
Kimbanguism
Kimbanguism, a Congolese sectarian church founded in 1921 by Simon Kimbangu, refers to Kimbangu’s birthplace in Nkamba, Congo (a village near Mbanza-Ngungu), as New Jerusalem, where he reputedly performed miracles. Like Bedward, Kimbangu was imprisoned for life in the year 1921, however his movement continues with many followers to the present.
The Kimbanguist believe that people of the Nkamba village saw the New Jerusalem descending from heaven (a building) physically in 1935, by which time Father Simon Kimbangu was in prison. The Kimbanguist has constructed this same design of the building, calling it Nkamba New Jerusalem, in reference to Revelation 21; it has a river with supposed healing power.
The Bahá’í Faith views the New Jerusalem as the renewal of religion that takes place about every thousand years and which secures the prosperity of the human world.[26][27]Bahá’u’lláh, the founder of the Bahá’í Faith, identified the New Jerusalem with his claimed revelation (the word of God), and more specifically with the Law of God.[28][29]
`Abdu’l-Bahá, Bahá’u’lláh’s son, further explains that the New Jerusalem which descends from heaven is not an actual city which is renewed, but the law of God since it descends from heaven through a new revelation and it is renewed.[30]Shoghi Effendi, head of the religion after the death of `Abdu’l-Bahá, stated that specifically Bahá’u’lláh’s book of laws, the Kitáb-i-Aqdas, is the new Jerusalem.[31][32] Bahá’u’lláh, in the Tablet of Carmel, also states that the new Jerusalem had appeared upon the new Mount Zion, Mount Carmel.[28]
Carly Simon references « the New Jerusalem, » in her Oscar-winning song from « Working Girl, » « Let the River Run. »
In popular culture
Science fiction writer Robert Heinlein wrote the story « If This Goes On—« , depicting a charismatic preacher managing to be elected President of the United States and setting up a theocratic dictatorship. Among other things, the capital is moved from Washington, D.C. to « New Jerusalem ».
^Averky (Taushev), Archbishop; Fr. Seraphim (Rose) (1998). The Apocalypse in the Teachings of Ancient Christianity. Platina CA: St. Herman of Alaska Brotherhood. p. 26. ISBN0-938635-67-0.
Bernet, Claus: « The Heavenly Jerusalem as a Central Belief in Radical Pietism in the Eighteenth Century », in: The Covenant Quarterly, 63, 4, 2005, pp. 3–19.
La Cité de Dieu, ed. by Martin Hengel, Tübingen 2000.
La Gerusalemme celeste, ed. by Maria Luisa Gatti Perer, Milano 1983.
Kühnel, Bianca: From the Earthly to the Heavenly Jerusalem. Representations of the Holy City in Christian Art of the First Millennium, Rom, 1987.
W. Tabbernee/Peter Lampe, Pepouza and Tymion: The Discovery and Archaeological Exploration of a Lost Ancient City and an Imperial Estate (deGruyter: Berlin/New York, 2008) ISBN978-3-11-019455-5 und ISBN978-3-11-020859-7
Daniel C. Harlow, The Greek Apocalypse of Baruch (3 Baruch) in Hellenistic Judaism and Early Christianity (New York: E.J. Brill, 1996)
Sanders, E. P. The Historical Figure of Jesus. New York: Penguin Books, 1993.
David Flusser, Judaism and the Origins of Christianity (Jerusalem: Magnes Press, 1988)
Aune, Word Biblical Commentary: Revelation 17–22
Stephen Pattemore, The People of God in the Apocalypse: discourse, structure, and exegesis (New York: Cambridge University Press, 2004)
Il est commandé par le duc de Berry aux frères Paul, Jean et Herman de Limbourg vers 1410-1411. Inachevé à la mort des trois peintres et de leur commanditaire en 1416, le manuscrit est probablement complété, dans certaines miniatures du calendrier, par un peintre anonyme dans les années 1440. Certains historiens de l’art y voient la main de Barthélemy d’Eyck. En 1485-1486, il est achevé dans son état actuel par le peintre Jean Colombepour le compte du duc de Savoie. Acquis par le duc d’Aumale en 1856, il est toujours conservé dans son château de Chantilly, dont il ne peut sortir, en raison des conditions du legs du duc.
Sur un total de 206 feuillets, le manuscrit contient 66 grandes miniatures et 65 petites. La conception du livre, longue et complexe, a fait l’objet de multiples modifications et revirements. Pour ses décors, miniatures mais aussi calligraphie, lettrines et décorations de marges, il a été fait appel à de nombreux artistes, mais la détermination de leur nombre précis et de leur identité reste à l’état d’hypothèse. Réalisées en grande partie par des artistes venus des Pays-Bas, à l’aide des pigments les plus rares, les peintures sont fortement influencées par l’art italien et antique. Après un oubli de trois siècles, les Très Riches Heures ont acquis rapidement une grande renommée au cours des xixe et xxe siècles, malgré leur très rare exposition au public. Les miniatures ont contribué à façonner une image idéale du Moyen Âgedans l’imaginaire collectif. C’est particulièrement le cas des images du calendrier, les plus connues, représentant à la fois des scènes paysannes, aristocratiques et des éléments d’architectures médiévales remarquables. Il s’agit de l’un des plus célèbres manuscrits enluminés.
Histoire du manuscrit
L’œuvre des frères de Limbour
La miniature ajoutée aux Petites Heures de Jean de Berry par les frères de Limbourg et représentant le duc de Berry partant en pèlerinage.
Lorsque Jean, premier duc apanagé du Berry, troisième fils de Jean II Le Bon, commande aux frères de Limbourg, Paul (ou Pol), Jean (ou Jannequin, Jehannequin ou Hennequin) et Herman (ou Herment) un nouveau livre d’heures, les liens entre les artistes et leur commanditaire sont déjà étroits. Il leur a déjà commandé vers 1405 la réalisation de ses Belles Heures qu’ils achèvent vers 1408-1409ms 1. Outre les deux livres déjà cités, le duc de Berry, grand bibliophile et amateur d’art dans tous les domaines, est par ailleurs déjà le propriétaire de quatre autres livres d’heures commandés à d’autres artistes : les Petites Heures de Jean de Berry (réalisées entre 1375-1380 puis 1385-1390)ms 2, son premier livre d’heures pour lequel il demande à Paul d’ajouter une miniature en 1412, les Très Belles Heures ou Heures de Bruxellesms 3, des Grandes Heuresms 4 et enfin des Très Belles Heures de Notre-Dame, aujourd’hui démembrées, dans lesquelles les frères de Limbourg ont ajouté au moins trois miniaturesms 5,c 1.
Les conditions de travail réservées aux frères de Limbourg par le duc sont exceptionnelles : ils bénéficient d’un contrat exclusif pour le duc et ils sont sans doute d’abord logés dans son château de Bicêtre, au sud de Paris, puis dans une maison luxueuse que leur a offerte le duc à Bourges. Ils se retrouvent ainsi exclus de la concurrence des autres ateliers et peuvent pleinement laisser libre cours à leur talent de peintres1.
Pour Raymond Cazelles, conservateur du musée Condé, les frères de Limbourg travaillent peut-être sur les Très Riches Heures à partir de 1410c 2. Pour Patricia Stirnemann, chercheur à l’Institut de recherche et d’histoire des textes, un petit détail du texte indique que le début de la rédaction du manuscrit ne commence qu’en 1411. Au folio 73, la litanie des confesseurs mentionne un saint Albert qui désigne, selon elle, Albert de Trapani. Celui-ci n’a été officiellement canonisé qu’en 1476, mais l’ordre du Carmel instaure en 1411, à l’occasion d’un chapitre général, une « fête par dévotion » afin de vénérer le religieux sicilien. Le manuscrit serait ainsi le premier témoignage de cette dévotion2.
En 1411, un premier texte atteste d’ailleurs que les frères de Limbourg sont au service du duc ; ils le restent de manière assurée jusqu’en 1415. Un plan est tout de suite élaboré et des enluminures réalisées, principalement celles dont les thèmes sont tirés des Évangiles. Peut-être vers 1413, le premier plan est bouleversé. Les frères réalisent alors les miniatures du « cycle de la Passion », ainsi que quatre miniatures du calendrier et une série de huit miniatures exceptionnelles par leur taille et leur sujet, parmi lesquelles L’Homme anatomique et le Plan de Rome. Il est difficile de savoir si les trois frères réalisent ensemble toutes les enluminures ou s’ils se répartissent le travail. Pour autant, l’historien de l’art américain Millard Meiss a tenté de répartir les miniatures entre les trois frères, en se fondant sur les autres manuscrits qui leur sont attribués : parmi les grandes enluminures, selon lui, dix-neuf seraient de la main de Paul, 16 de Jean et 9 d’Herman. Cependant, ces hypothèses ont été fortement critiquées, notamment par François Avril, conservateur à la Bibliothèque nationale de France. Raymond Cazelles préfère distinguer les trois frères de manière anonyme en les désignant sous les noms de « Limbourg A » (peut-être Paul), « Limbourg B » (peut-être Herman) et « Limbourg C » (peut-être Jean)c 3. Ils disparaissent tous les trois en 1416, peut-être à la suite d’une épidémie de peste, sans que le manuscrit soit achevé, et notamment les représentations des moisc 4. Une partie du manuscrit garde encore des traces de ce brusque arrêt : le folio 26 verso conserve le dessin d’un iris dans un pot et d’un oiseau qui n’ont pas été coloriésc 2.
Le 15 juin de cette même année 1416, leur commanditaire disparaît. Son inventaire après décès mentionne le manuscrit en plusieurs cahiers rangés dans une boîte : « Item, en une layette plusieurs cayers d’unes tres riches Heures que faisoient Pol et ses freres, tres richement historiez et enluminez ; prisez Vc [500] l[ivres] t[ournois] »3. Si l’estimation n’est pas très importante en comparaison des 4 000livres des Grandes Heuresms 4, cela reste une forte somme pour un manuscrit inachevé et non relié. Selon Millard Meiss, le manuscrit reste en possession des rois de France après 1416. La liquidation des biens du duc semble avoir été interrompue pendant la période d’occupation de Paris par les Anglais, à partir de 1420, en pleine Guerre de Cent Ans et le manuscrit reste, semble-t-il, inaccessible jusqu’en 1436, année de la libération de la ville par les troupes françaises de Charles VII4.
Les autres peintres, après la mort des frères de Limbourg
Charles Ier de Savoie, propriétaire du manuscrit à la fin du xve siècle, représenté au fo 75 ro.
D’après l’historien de l’art italien Luciano Bellosi5, le manuscrit est complété par un peintre qui serait intervenu dans les années 1440. Les miniatures de certains mois — mars, juin, septembre, octobre et décembre — sont réalisées ou achevées à cette époque : certains costumes y sont caractéristiques de la mode apparue dans les années 1440. Même si cette datation par la mode a été discutée, plusieurs innovations graphiques présentes dans ces miniatures — comme le plus grand réalisme des paysans ou de la nature — peuvent ainsi s’expliquer par une datation du milieu du xve siècle. D’autres ajouts de style eyckien sont décelables dans certains personnages de l’illustration des Litanies de saint Grégoire (f.71v-72). Cette existence d’un peintre intermédiaire un peu avant le milieu du siècle fait désormais l’objet d’un quasi-consensus parmi les historiens de l’art4. Selon Bellosi, ce peintre vivait sans doute dans l’entourage royal ou dans celui de René d’Anjou, beau-frère de Charles VII. Le style de ce peintre, qui possède des caractères eyckiens, peut être rapproché notamment de celui de l’auteur du manuscrit du Livre du cœur d’Amour épris de Viennems 6, commandé par le roi Renéc 5. Celui-ci a depuis été attribué à Barthélemy d’Eyck, ce qui fait dire à Nicole Reynaud, entre autres, que ce peintre officiel du roi de Provence serait l’auteur de ces ajouts dans le manuscrit des Très Riches Heures avant 14506. Pour elle, la représentation des chiens de Décembre, avec la bave aux lèvres, vaut une quasi-signature de l’artiste7.
Cette attribution à Barthélemy d’Eyck a été contestée par plusieurs spécialistes. C’est le cas par exemple de l’historienne de l’art britannique Catherine Reynolds, pour qui le style des ajouts de ce peintre intermédiaire ne correspond pas à celui de Barthélemy d’Eyck. D’autre part, des emprunts à ces parties des Très Riches Heures se retrouvent très tôt dans certaines miniatures de manuscrits dans deux livres d’heures attribués au maître de Dunois : une scène de semailles d’octobre dans un manuscrit conservé à Oxfordms 7 et une Présentation au temple dans les Heures de Dunoisms 8. Or, c’est entre 1436 et 1440 que ces manuscrits sont produits. Dès lors, les ajouts du peintre intermédiaire doivent être datés au plus tard à la fin des années 1430. Cependant, à cette époque, Barthélemy d’Eyck, actif uniquement à partir de 1444, ne peut avoir eu entre les mains les cahiers inachevés du duc de Berry selon Reynolds8.
Pour l’historienne de l’art Inès Villela-Petit, ce problème de datation s’expliquerait par le fait que les dessins du calendrier avaient déjà été en grande partie tracés par les frères de Limbourg, à défaut d’en avoir achevé la peinture. Ainsi, le maître de Dunois aurait consulté ces dessins pour réaliser ses propres miniatures dans les années 1436-1440, et non les ajouts à ces dessins effectués par Barthélemy d’Eyck après 1440. Cette hypothèse justifierait l’intervention du peintre du roi René à telle période. Plus précisément, le peintre serait intervenu à la demande de Charles VII, propriétaire de l’ouvrage, alors que le roi séjournait à Saumur en 1446 chez son cousin René d’Anjou4.
Dans les années 1480, le manuscrit est en possession de Charles Ierde Savoie. En effet, celui-ci est le neveu de Louis XI, ce qui fournit l’occasion de faire passer le manuscrit d’une famille à l’autrec 6. Pour Nicole Reynaud, c’est Charlotte de Savoie, femme de Louis XI, qui possède les cahiers du manuscrit à sa mort, le . En effet, son inventaire après-décès comporte la mention imprécise d’un livre d’heures qui pourrait être les Très Riches Heures. Elle le lègue à son neveu Charles7. Un texte du atteste que le duc de Savoie fait appel au peintre berrichon Jean Colombe pour achever le manuscrit. Celui-ci le complète sans doute à Bourges, dans son atelier. Il le rapporte au prince dans son château à Chambéry. Le , le duc récompense le travail du peintre en lui accordant une rente de 100 écus par an ; le manuscrit est alors sans doute achevé. Jean Colombe a notamment réalisé ou achevé 27 grandes miniatures et 40 petitesc 7.
Le parcours du manuscrit est obscur après 1486. Selon Raymond Cazelles, le manuscrit reste en possession de la famille de Savoie, passant de Chambéry à Turin dans le courant du xvie siècle avec le reste de la bibliothèque des ducs. Celle-ci est léguée officiellement à la bibliothèque royale de Turin en 1720 par Victor-Amédée II. Selon Cazelles, le livre d’heures n’a donc jamais quitté le Piémontc 8. Paul Durrieu, dès 1903, est d’un tout autre avis9. À la mort de Philibert II de Savoie, descendant de Charles Ier, sa veuve en secondes noces, Marguerite d’Autriche, quitte la Savoie pour regagner les Pays-Bas, emportant avec elle une quinzaine de livres de la bibliothèque des ducs, dont probablement l’Apocalypse figurée des ducs de Savoiems 9 et peut-être les cahiers non reliés des Très Riches Heures. Selon Durrieu, un inventaire de la chapelle de Marguerite à Malines mentionne en 1523 une « grande heure escripte à la main », qu’il rapproche des Très Riches Heures. Il n’est alors pas conservé dans la bibliothèque ce qui expliquerait l’absence de marque de propriété de la régente des Pays-Bas. Il aurait été donné à sa mort à Jean Ruffault de Neufville, trésorier de l’empereur Charles Quint qui l’aurait confié à une communauté religieuse. Toujours selon Durrieu, le manuscrit serait passé ensuite en possession d’Ambrogio Spinola, militaire génois au service de la couronne espagnole aux Pays-Bas décédé en 1630 et grand amateur d’art. C’est par ce biais qu’il serait retourné en Italie, et plus particulièrement dans la région de Gênes. On retrouve les armes de sa famille sur la reliure actuelle qui date du xviiie siècle. Les Heures de Spinolams 10, qui possèdent une reliure tout à fait similaire, auraient connu le même trajet10.
Le manuscrit aurait été légué en 1826 par le marquis Vincenzo Spinola di San Luca (1756-1826) à son neveu Gio Battista Serra (1768-1855), issu d’une autre grande famille génoise. C’est alors que les armes de cette dernière sont ajoutées à la reliure. La fille naturelle légitimée de Serra se fiance au baron Felix de Margherita, commissaire de la Marine royale, en 1849 et ce dernier hérite des Très Riches Heures11.
En , le bibliophile d’origine italienne et bibliothécaire-adjoint du British MuseumAntoine Panizzi indique à Henri d’Orléans, duc d’Aumale, que le propriétaire cherche à vendre son bien. Le duc se déplace en personne en Ligurie pour consulter l’ouvrage qui est déposé dans un pensionnat de jeune fille à Pegli. Il est aussi proposé en parallèle à Adolphe de Rothschild. Le duc l’achète le pour la somme de 18 000 francs, soit 19 280 francs avec les frais d’intermédiaires11. Le duc le fait venir en Angleterre, où il vit alors en exilc 9. En 1877, à son retour, le livre intègre la collection des livres rares du château de Chantilly. Il est donné dès 1886 à l’Institut de France, avec l’ensemble de ses collections, de son château et de son domaine. Le musée Condé ouvre au public en 1898, cependant, l’exposition du manuscrit reste très rare car le testament du duc d’Aumale, entré en vigueur à sa mort en 1897, empêche toute sortie du musée12.
Composition du manuscrit
L’ouvrage contient 206 feuillets, d’un format de 21 cm de largeur sur 29 cm de hauteur, répartis en 31 cahiersreliés. Les feuillets sont fabriqués à partir d’une feuille de vélin très fin pliée en deux, formant deux feuillets de quatre pages. Chaque cahier était sans doute formé, à l’origine de la constitution du livre, de quatre de ces feuillets doubles, soit seize pages. Seuls 20 des 31 cahiers suivent encore cette forme, les 11 autres ayant été réduits ou augmentés. Le manuscrit compte 66 grandes miniatures couvrant la totalité d’un feuillet ou ne laissant que trois à quatre lignes de texte et 65 petites, s’insérant dans une des deux colonnes de textec 10.
Organisation actuelle du manuscrit
Le livre d’heures se répartit de la façon suivante (les œuvres dont les titres sont en gras illustrent la ligne concernée) :
Organisation du manuscrit et répartition des miniaturesc 11
Chapitre
Cahiers
Feuillets
Nombre de miniatures
Exemple de miniature
Calendrier
1 à 3
1 à 12
12 grandes miniatures (1 par mois)
plus une miniature exceptionnelle (L’Homme anatomique)
10 grandes miniatures (L’Annonciation, Le Baptême de saint Augustin, La Visitation, La Nativité, L’Annonce aux bergers, Scènes de la fuite en Égypte, Le Couronnement de la Vierge), 3 miniatures exceptionnelles (La Rencontre des rois mages, L’Adoration des rois mages, La Purification de la Vierge) et 34 petites
1 miniature exceptionnelle (La Chute des anges rebelles) et 7 petites miniatures (Imploration dans l’épreuve, L’Aveu libéré du péché, Prière dans la détresse, Miserere, Prière dans le malheur, De Profundis, Humble supplication)
5 grandes miniatures (Job sur son fumier, Les Obsèques de Raymond Diocrès, La Légende des morts reconnaissants13, Action de grâce auprès d’un danger mortel, Miserere), 1 miniature exceptionnelle (L’Enfer), 9 petites (Hymne d’action de grâces, Hymne au Dieu secourable, Prière du juste persécuté, Prière dans le péril, Près de Dieu, point de crainte, Action de grâces, appel au secours, Complainte du lévite exilé, Hymne d’action de grâce, Le Cantique d’Ézéchias)
L’Office de la semaine
17 à 21
109 à 140
7 grandes miniatures (Dimanche – Le Baptême du Christ, Lundi – Le Purgatoire, Mardi – La Dispersion des Apôtres, Mercredi – Le Paradis, Jeudi – Le Saint Sacrement, Vendredi – L’Invention de la Croix, Samedi – La présentation de la Vierge au temple) et 1 miniature exceptionnelle (Le Plan de Rome)
9 grandes miniatures (L’Arrestation de Jésus (Ego Sum), Le Christ conduit à la demeure de son juge, La Flagellation, La Sortie du prétoire, Le Portement de croix, La Crucifixion, Les Ténèbres, La Déposition de croix, La Mise au tombeau) et 4 petites (Psaume imprécatoire, Parmi la sexte, souffrances et espoirs du juste, Lamentation, Au milieu des lions)
12 grandes miniatures (La Messe de Noël, Premier dimanche de Carême – La tentation du Christ, 2e dimanche de Carême – La Cananéenne, 3e dimanche de Carême – La Guérison du possédé, 4e dimanche de Carême – La Multiplication des pains, Dimanche de la Passion – La Résurrection de Lazare, Dimanche des Rameaux – L’Entrée du Christ à Jérusalem, Dimanche de Pâques – La Résurrection, Fête de l’Ascension – L’Ascension, L’Exaltation de la croix, Fête de l’archange – Le Mont-Saint-Michel, Le Martyre de saint André) et 6 petites miniatures (La Pentecôte, La Trinité – Le Christ bénissant le monde, Fête-Dieu – La Communion des apôtres, Fête de la Vierge – Vierge à l’Enfant, La Toussaint – La Bénédiction du pape, Fête des Morts – La Messe des morts)
Dans son état actuel, le manuscrit est incomplet : il lui manque les matines et les laudes du cycle de la Passion. À ces miniatures, s’ajoutent des lettrines au début de chaque phrase et des bouts-de-lignes en fin de phrase, ainsi que de grandes initiales au début de chaque prière ou de chaque psaume, accompagnées de décorations de fleurs et de feuillages séparant les colonnes de texte ou décorant les marges. Les huit miniatures exceptionnelles sont des pages peintes probablement en dehors du cadre du plan du manuscrit et ajoutées a posteriori aux cahiersc 10.
Les étapes de l’élaboration du manuscrit
L’analyse des miniatures, de leur style et de leurs formes a permis à Millard Meiss puis à Raymond Cazelles de proposer un schéma de la chronologie dans l’élaboration du manuscrit des Très Riches Heures. Meiss est ainsi parvenu à distinguer la main de 13 artistes distincts. Une nouvelle analyse approfondie du manuscrit, menée par Patricia Stirnemann, lui a permis de distinguer cette fois 27 différents artistes14.
Elle distingue ainsi les copistes (au nombre de cinq, selon elle), les enlumineurs de petites lettrines et de « bouts-de-lignes » en début en et fin de chaque phrase (neuf artistes), les peintres de bordures de pages ou d’initiales ornées et historiées en début de chapitre (huit personnes) et les miniaturistes (cinq personnes). Contrairement à ce que l’on pourrait croire, les Très Riches Heures ne sont pas le résultat d’un programme établi à l’avance et dirigé par un maître selon des instructions préétablies. Bien au contraire, elles sont le résultat de multiples revirements, de coupures et de retouches14.
Élaboration du manuscrit et répartition des miniaturesc 4,14
Période
Cahiers ou folios concernés
Artistes/artisans
Miniatures
Exemple de miniature
Première campagne (entre 1411 et 1416)
Cahiers 4, 6 à 11, 25 à 29 et folio 198 r/v du cahier 30
Initiales par les frères de Limbourg ainsi que par le Maître du Bréviaire de Jean sans Peur et le Maître de l’Iris, 4 enlumineurs de lettrines et bouts-de-ligne différents. 13 miniatures par les frères de Limbourg
Saint Jean à Patmos (f.17), Martyre de saint Marc (f.19), La Vierge, L’Annonciation(f.26), La Visitation(f.38v), La Nativité (f.44v), L’Annonce aux bergers (f.48), La Tentation du Christ (f.161v), La Guérison du possédé(f.166r), La Multiplication des pains(f.168), La Résurrection de Lazare (f.171), L’Entrée du Christ à Jérusalem(f.173v), L’Exaltation de la Croix (f.193r), Le Mont Saint-Michel (f.195)
Deuxième campagne (entre 1411 et 1416)
Cahiers 10, 12 à 24, 27-28, 30-31
Éclatement du premier plan, 5 nouveaux enlumineurs de lettrines et bouts-de-ligne, 2 nouveaux peintres d’initiales : le Pseudo-Jacquemart(cahiers 10, 17, 18, 23 et 24) et le Maître du Sarrasin et les Limbourg pour les miniatures dont 14 grandes miniatures, pour la première fois en pleine page (dont les « miniatures exceptionnelles »)
Rencontre des rois mages(f.51v), Adoration des mages (f.52), Présentation au Temple (f.54), Le Couronnement de la Vierge(f.60v), La Chute des anges rebelles(f.64v), L’Enfer(f.108), Le Plan de Rome(f.141), Ego Sum (f.142), Le Christ conduit à la demeure de son juge (f.143), La Flagellation(f.144), La Sortie du prétoire(f.146v), Le Portement de croix (f.147), Les Ténèbres(f.153), La Déposition de la croix(f.156v), et peut-être Adam et Ève expulsés du paradis(f.25v) et L’Homme zodiacal (f.14v)
Troisième campagne (entre 1411 et 1416)
Cahiers 1-3, 11, 13, 24-25, 28 (en grande partie inachevés)
1 nouvel enlumineur, 1 peintre de décors marginaux : le Maître de Bedford(f.86v, 152v, 158, 182), et 3 peintres d’initiales : le Maître du KL de Janvier (f.1, 2, 5, 6, 7), le Maître du KL d’août (f.8 à 12) et Maître du KL de Mars et Avril et la réalisation de 12 miniatures en totalité ou partiellement par les frères de Limbourg
Janvier, Février, Mars (en grande partie), Avril, Mai, Juin(en partie), peut-être Juillet, Août, Octobre, Décembre(partiellement) ainsi que le dessin des Obsèques de Raymond Diocrès (f.86v) et La Messe de Noël (f.158)
Peintre intermédiaire (années 1440 ?)
Cahiers 1-3
Le Peintre intermédiaire : parfois identifié à Barthélemy d’Eyck(achèvement des mois du calendrier et quelques autres ajouts)
Mars, Juin, Septembre, Octobre et Décembre, ainsi que quelques ajouts aux personnages des Litanies de saint Grégoire(f.71v-72)15
Commande du duc de Savoie (1485-1486)
Cahiers 6 (petites miniatures), 9 à 15, 17 à 20, 23 à 31 (partiellement)
Jean Colombe(achèvement ou réalisation de 27 grandes miniatures et 40 petites)
Entre autres : Le Christ de pitié (f.75), La Pentecôte(f.79), Job sur son fumier(f.82), Le Cavalier de la mort (f.90), Action de grâce après un danger de mortel (f.95), Miserere(f.100), Le Baptême du Christ (f.109), Le Purgatoire(f.113), La Dispersion des Apôtres (f.122), Le Paradis(f.126), Le Saint Sacrement(f.129v), L’Invention de la Croix (f.133), La Présentation de la Vierge au temple (f.137), La Mise au tombeau(f.157), Au milieu des lions(f.157v), La Messe de Noël(mise en couleur, f.158), La Résurrection(f.182), L’Ascension(f.184), Le Martyre de saint André(f.201)
Les peintres d’initiales ou de bordures ont été ici désignés par Stirnemann selon des noms conventionnels pour les distinguer ou les rapprocher d’autres peintres de manuscrits. Ainsi, le Maître du Bréviaire de Jean sans Peur est rapproché du peintre du bréviaireréalisé pour Jean Ier de Bourgogne vers 1413-1415ms 11. Le Maître de l’Iris doit son nom au dessin d’un iris qu’il a laissé inachevé au folio 26. Le Pseudo-Jacquemart, parfois identifié à Jean Petit, peintre collaborateur et beau-frère de Jacquemart de Hesdin, est l’auteur de la plupart des miniatures, initiales et drôleries des Grandes Heures du duc de Berryms 4. Le Maître du Sarrasin doit son nom à la tête de sarrasin dans l’initiale du folio 65. Le Maître de Bedford, parfois identifié à Haincelin de Haguenau16, est notamment le peintre du Livre d’Heures du duc de Bedford vers 1414-1415ms 12. Les Maîtres du KL doivent leur nom aux initiales « K » et « L » qu’ils ont réalisées dans le texte des calendriers. Le Maître du KL de Janvier est assimilé à un collaborateur du Maître de Bedford dans les Heures du même nom et dont il a réalisé les bordures. Le Maître du KL d’août est rapproché pour sa part du peintre de plusieurs bordures des Heures Lamoignonms 13. Le Maître du KL de mars et d’avril présente des ressemblances avec un manuscrit de la bibliothèque Bodléiennems 14,14.
Iris inachevé, Maître de l’Iris, f.26r.
Initiale à la tête de sarrasin, Maître du sarrasin, f.65r.
Initiales « KL » du texte d’août, f.9r.
Initiales « KL » du texte de mars, f.4r.
Réalisations de différents peintres d’initiales
Le texte
Le texte en latin est disposé sur deux colonnes de 48 mm chacune et sur 21 ou 22 lignes. Selon l’habitude, le manuscrit a d’abord été entièrement écrit en laissant libre l’emplacement des enluminures. On ne connaît pas le nom du ou des calligraphes, mais un « escripvain de forme » du nom de Yvonnet Leduc travaillait au service de Jean de Berry en 1413. Des notes destinées à guider les enlumineurs ont été laissées dans les margesc 10. Patricia Stirnemann distingue la main de cinq copistes dans l’ensemble du manuscrit : le premier copiste réalise rapidement la plus grande partie du texte, du folio 17 au folio 204 verso. Un deuxième copiste intervient à l’occasion de la troisième campagne. Un troisième copiste réalise le feuillet de remplacement 53 recto/verso et enfin un quatrième écrit les noms des mois et les chiffres sur la miniature de L’Homme zodiacal. Un cinquième copiste intervient en même temps que Jean Colombe en écrivant les feuillets 52 verso et 54. Il s’agit peut-être de Jean Colombe lui-même14.
Texte du calendrier de janvier, f.1 (2e copiste ?).
Psaume 122, Prière des malchanceux, f.52v (calligraphie de Jean Colombe ?).
Texte des psaumes 123 et 124, f.53r (3e copiste ?).
Première page de l’office de la semaine, f.110 (1er copiste ?).
Exemples de textes des Très Riches Heures
La peinture et la couleur
La palette de couleur utilisée par les Limbourg est particulièrement riche et diversifiée : tous les pigments disponibles sont utilisés avec une préférence donnée aux plus précieux. Sont ainsi retrouvés dans les peintures : le bleu lapis-lazuli, le rouge vermillon, la laque rose, fabriquée à base de bois de Brésil, le vert de cuivre, l’indigo, le giallorino (ou « petit jaune », sorte de gaude), ainsi que des ocres, du blanc de plomb et le noir de fumée. Ils utilisent à l’inverse très peu de minium ou d’or mussif contrairement à beaucoup d’enlumineurs de l’époque17.
Selon Inès Villela-Petit, il est possible de distinguer des différences dans l’usage de la couleur entre les trois frères de Limbourg, en fonction des miniatures qui leur sont attribuées. Dans les miniatures généralement attribuées à Jean, comme Avril par exemple, les personnages sont représentés avec des couleurs vives alors que les paysages y sont plus doux et le ciel saturé d’azur, sans aucun dégradé. Les miniatures attribuées à Herman, comme La Multiplication des pains (f.168v), comportent des paysages aux couleurs bleu et vert, sont pourvues d’un fond décoratif, avec des lignes claires au premier plan et un horizon généralement plus sombre. Les miniatures attribuées à Paul, telles que La Nativité(f.44v), sont composées à l’inverse d’un ciel pâle, de coloris laiteux avec des bleus et jaunes pâles, du rose saumoné, du vert d’eau, du turquoise et un camaïeu de brun pour les paysages17.
Couleurs vives et saturées : Avril, f.4.
Fond décoratif, horizon sombre et premier plan clair : La Multiplication des pains, f.168v.
Coloris plus pâles, camaïeu de brun et ciel en dégradés : La Nativité, f.44v.
Différents modes d’utilisation de la couleur chez les frères de Limbourg
La reliure
La reliure vue du plat inférieur, orné des armes de la famille Spinola.
Le manuscrit a été relié très tardivement. Comme déjà indiqué, il ne l’était ni 1416 à la mort du duc de Berry, ni en 1485 alors qu’il est la propriété des ducs de Savoie. S’il est bien la propriété de Marguerite d’Autriche, entre 1504 et 1530, il est, pendant cette période, relié, recouvert de velours et muni d’un fermoir d’argent. Selon l’historien de l’art britannique Christopher De Hamel, la reliure aurait été effectuée en 1524 par Martin des Ableaux, un orfèvre de la cour de la régente des Pays-Bas à Malines. Les dernières pages du manuscrit contiennent encore des marques de rouille à l’emplacement des anciens fermoirs de cette reliure18. Une nouvelle reliure est réalisée en cuir maroquin rouge, au cours de la seconde moitié du xviiie siècle. Des armes sont apposées à la feuille d’or sur les deux plats : celles de la famille Spinola. Cette reliure est identique à un autre manuscrit célèbre ayant appartenu au même propriétaire, les Heures de Spinolams 10. Sur le plat supérieur, sont appliquées, sur une nouvelle pièce de maroquin venu en surcharge, celles de la famille Serra19. Après son acquisition par le duc d’Aumale, ce dernier fait fabriquer une boîte pour le conserver, recouverte d’une plaque de métal en argent ciselé, œuvre de l’orfèvre Antoine Vechte11.
Iconographie
Le calendrier
Première page manuscrite du calendrier, le mois de janvier, f.2r.
Le calendrier est sans doute l’ensemble de miniatures le plus célèbre du livre, si ce n’est de toutes les enluminures du Moyen Âge. Présent dans tous les livres d’heures, le calendrier permet au lecteur de repérer la prièrecorrespondant au jour de l’année et à l’heure de la journéec 12.
Il prend cependant ici une importance particulière : pour la première fois, chaque mois occupe deux pages et est illustré d’une miniature en pleine page. Par ailleurs, le calendrier inclut des données astronomiques qui atteignent un degré de précision jamais atteint jusqu’alors. La page de texte contient plusieurs colonnes, de gauche à droite : la première est consacré au nombre d’or astronomique, qui permet le calcul entre les calendriers solaire et lunaire, la deuxième compte la lettre dominicale, la troisième et quatrième contiennent le décompte mensuel des jours conformément au calendrier julien et la cinquième colonne une liste de saints en français pour chaque jour. La sixième colonne, beaucoup plus rare dans les calendriers de l’époque, contient la durée de chaque jour diurne en heures et minutes. Enfin, la septième colonne, exceptionnelle, donne un nouveau nombre d’or, décalé par rapport au nombre d’or astronomique traditionnel de la première colonne20.
Chaque miniature, sur la page de gauche, est surmonté d’un demi-disque contenant diverses informations astronomiques inscrits dans 7 demi-cercles. Le premier tout en bas contient les numéros des jours dans le mois, le second contient les lettres des premières lunes (litteraeprimationum lunae), qui est une application du nouveau nombre d’or astronomique, et chaque lettre est surmontée dans le demi-cercle supérieur d’un croissant de lune. Le quatrième demi-cercle contient la mention « Primaciones lune » (« première lune) », le nom du mois et le nombre de jours. Le demi-cercle au-dessus contient une représentation des signes du zodiaques sur fond de ciel étoilé, qui débutent selon la position des astres et de la terre au début du xve siècle. L’équinoxe de printemps, début du signe du bélier, arrive ainsi le 12 mars, date de la position du point vernal à cette époque. Leur nom est inscrit dans le demi-cercle au-dessus. Enfin, dans le dernier demi-cercle contient les degrés de longitude contenus dans chaque signe zodiacal, à la manière des astrolabes20. Cependant, le calendrier étant inachevé, quatre des miniatures (Janvier, Avril, Mai, Août) sont vierges d’inscription21.
Ce calendrier, avec son nouveau nombre d’or, constituerait, selon Jean-Baptiste Lebigue, l’une des très rares applications de la proposition de réforme du calendrier faite par Pierre d’Ailly, daté de 1412, qui préfigure le futur calendrier grégorien. Ces détails peuvent s’expliquer par l’intérêt porté par le commanditaire à l’observation à l’astrologie et au comput20. Cette hypothèse est cependant remise en cause par d’autres historiens22.
Au centre du demi-cercle est représenté à chaque fois le dieu Apollondans son char. Cette représentation est en grande partie inspirée d’un revers d’une médaille byzantine acquise par le duc de Berry, mentionnée dans un de ses inventaires, et représentant l’empereur Héraclius dans un char semblable23.
Le duc de Berry, assis en bas à droite, dos au feu, est habillé de bleu et coiffé d’un bonnet de fourrure. Il invite ses gens et ses proches à se présenter à lui. Derrière lui figure l’inscription « Approche Approche ». Plusieurs familiers du duc s’approchent de lui pendant que des serviteurs s’affairent : les échansonsservent à boire, deux écuyers tranchantsau centre sont vus de dos. Tous deux sont parés d’une écharpe blanche, signe de ralliement des Armagnacs pendant la Guerre de Cent Ans24. Au bout de la table officie un panetier. Au-dessus de la cheminée figurent les armes du duc, « d’azur semé de fleurs de lys d’or, à la bordure engrêlée de gueules », avec de petits ours et des cygnes blessés, emblèmes de Jean de Berry. Plusieurs animaux de compagnie sont représentés : petits chiens sur la table, lévrier au sol. La tapisserie du fond de la salle semble représenter des épisodes de la guerre de Troiec 13. Sur la table, est posée sur la droite une nef qui a été identifiée à une pièce d’orfèvrerie ayant réellement appartenu au duc : il s’agirait de la Sallière du pavillon, mentionnée dans un inventaire des biens de Jean de Berry en 1413 et décrite avec le cygne navré et l’ours à chaque extrémité, symboles du prince. L’objet, aujourd’hui disparu, est estimé à 1 000 livres tournois dans son inventaire après-décès25.
Dans cette miniature, le duc prend en fait la place du dieu Janus bifrons, qui était traditionnellement représenté dans les calendriers médiévaux au mois de janvier, festoyant et regardant à la fois l’année passée et l’année à venir24.
Selon Saint-Jean Bourdin26, la scène se déroulerait le 6 janvier 1414, lors de l’Épiphanie, dans la salle de l’hôtel de Giac à Paris, dans l’actuel quartier de Bercy. Le prélat assis au côté du duc serait Guillaume de Boisratier, archevêque de Bourges. L’auteur croit reconnaître par ailleurs le comte d’Eu, le duc de Bourbon, Louis Ier de Bourbon-Vendôme, le duc de Savoie, le comte d’Armagnac et les frères de Limbourg eux-mêmes. Pourtant, ces identifications sont jugées très incertaines voire invraisemblables. Pour Paul Durrieu, le prélat est plutôt Martin Gouges, autre proche du duc27. Pour d’autres, la scène se déroule plutôt dans son hôtel de Nesles24. L’hypothèse la plus récente y voit la festin du Nouvel An organisé par le duc le 1erjanvier 1415. Il s’agissait de réconcilier Armagnacs et Bourguignonsaprès la Paix d’Arras. Charles d’Orléans et son frère Philippe y ont participé et pourrait être représentés parmi les écuyers tranchants, soit ceux vus de dos, soit celui au bout de la table, vêtu de blanc, rouge et noir. Ces couleurs ont en effet été choisies par l’équipe d’Orléans lors de joutes qui se sont déroulées quelques jours plus tard. Le prélat pourrait être Alamanno Adimari, archevêque de Pise et légat du papeJean XXII, qui a offert au duc ce jour-là une salière en or20.
Un grand nombre de personnages présentent un caractère jeune et androgyne, le duc se retrouvant ainsi au centre d’un univers homosocial. Cette miniature serait, selon certains historiens, l’un des indices de l’homosexualité de Jean de Berry28. Selon Meiss, Jean de Limbourg serait l’auteur de la miniature alors que selon Cazelles, il s’agirait de « Limbourg B »c 13.
La scène représente la rudesse de la vie des paysans en hiver. Elle est en opposition radicale avec la magnificence de la scène précédente. Un enclos ceint une ferme comprenant une bergerie et, sur la droite, quatre ruches et un pigeonnier. À l’intérieur de la maison, une femme et deux jeunes gens sans sous-vêtements se réchauffent devant le feu. À l’extérieur, un homme abat un arbre à la hache, des fagots à ses pieds, tandis qu’un autre s’apprête à rentrer en soufflant sur ses mains pour se réchauffer. Plus loin, un troisième conduit un âne, chargé de bois, en direction du village voisinc 14.
Des scènes hivernales ont été représentées dans d’autres livres enluminés de l’époque, notamment une miniature dans un manuscrit du Décaméron (vers 1414)ms 15 et une autre dans un manuscrit du Miroir Historial de Vincent de Beauvais (vers 1410)ms 16, toutes deux attribuées au Maître de la Cité des dames mais celle des Très Riches Heures reste la plus élaborée. Selon Meiss, Paul de Limbourg est l’auteur de la miniature ; selon Cazelles, elle a été réalisée après les frères de Limbourg car des traces de l’esquisse, visibles notamment au niveau du bûcheron et de l’ânier, indiquent que celle-ci n’a pas été suivie dans l’exécution finalec 14. Selon Erwin Panofsky, il s’agit là du « premier paysage de neige de l’histoire de la peinture »29.
Cette peinture représente une scène de travaux agricoles. Chaque champ contient une étape différente des travaux, tous séparés par des chemins se croisant au niveau d’un édicule appelé montjoie. Au premier plan, un paysan laboure un champ de céréales à l’aide d’une charrue à versoir et avant-train muni de deux roues, le tout tiré par deux bœufs, l’homme les dirigeant à l’aide d’une longue gaule. Des vignerons taillent la vigne dans un enclos à gauche et labourent le sol à l’aide d’une houe pour aérer le sol : ce sont les premières façons de la vigne30. Sur la droite, un homme se penche sur un sac, sans doute pour y puiser des graines qu’il va ensuite semer. Enfin, dans le fond, un berger emmène le chien qui garde son troupeauc 15,31.
À l’arrière-plan figure le château de Lusignan (Poitou), propriété du duc de Berry qui l’a fait moderniser. On voit à droite de l’image, au-dessus de la tour poitevine, un dragon ailé représentant la fée Mélusine. En 1392, Jean d’Arras a composé pour Jean de Berry la Noble histoire de Lusignan, appelé aussi Roman de Mélusine, dans laquelle il raconte l’histoire de la fée, ancêtre imaginaire du duc. Selon la légende, Mélusine a donné naissance à la lignée des Lusignan et serait le bâtisseur de la forteresse. Épouse de Raymondin de Lusignan, elle lui a promis la richesse et le bonheur, à la condition qu’il ne la voit jamais le samedi, jour où son corps prend l’apparence d’un dragon. Un jour, Raymondin rompt le pacte et observe sa femme au bain. La fée s’enfuit alors en prenant la forme d’un dragonc 15,.
La miniature a été réalisée en deux temps : la partie supérieure par les frères de Limbourg, la partie inférieure par le peintre intermédiaire. Les ombres projetées par le paysan sont typiques du style eyckien apparu dans les années 1420 mais aussi du clair-obscur manié par Barthélemy d’Eyck4.
Le sujet principal de cette peinture est une scène de fiançailles : au premier plan, à gauche, un couple échange des anneaux devant deux témoins et un autre personnage, représenté derrière, plus petit que les autres. Selon Saint-Jean Bourdin, il s’agirait d’une représentation des fiançailles de Marie de Berry, fille du duc de Berry, et de Jean Ier de Bourbonle , avis partagé par Patricia Stirnemann32. Cependant, pour Cazelles, il semble difficile de représenter une scène dix ans après qu’elle a eu lieu. Selon Jean Longnon, il s’agirait plutôt des fiançailles de sa petite-fille, Bonne d’Armagnac, avec Charles Ierd’Orléans, neveu de Charles VI et connu pour son œuvre poétique, et qui se sont déroulées le à Gienc 16.
Plus au centre, deux suivantes cueillent des fleurs. À droite, on aperçoit un verger clos de murs et d’un édifice à créneaux. À l’arrière-plan se dresse un château, souvent désigné comme le château de Dourdan, au pied duquel coule l’Orge. La forteresse, construite par Philippe Auguste en 1222, est la propriété de Jean de Berry à partir de 1400, qui y fait construire un logis33. Cependant, les représentations anciennes de cet édifice, notamment l’estampe de Claude Chastillonau xvie siècle, lui correspondent assez peu. Il pourrait s’agir plutôt, selon Cazelles, du château de Pierrefonds, construit aussi par Philippe Auguste entre 1220 et 1222, propriété de Louis Ier d’Orléans, situé comme ici à proximité d’un plan d’eau, l’étang du Roi. Une autre construction – Le Parcq – se trouvait à proximité, comme le bâtiment représenté ici à droite, qui lui ressemble. Pour Meiss, Jean de Limbourg est l’auteur de cette miniature alors que pour Cazelles, il s’agirait de « Limbourg B », comme pour le mois de janvierc 16.
Ce mois est illustré par la cavalcade traditionnelle du 1er mai : des jeunes gens vont à cheval, précédés de joueurs de trompettes. Ils partent en forêt chercher des rameaux qu’ils porteront sur la tête ou autour du cou. À cette occasion, les dames arborent une longue robe verte, comme c’est ici le cas de trois d’entre elles. Plusieurs personnages portent des feuillages dans leur coiffure : on leur prête des effets bénéfiques, plusieurs ouvrages conseillent de porter des chapeaux de fleurs « pour conforter le chief »34.
Des propositions d’identification des personnages ont été avancées : d’après Cazelles, on pourrait voir Jean Ier de Bourbon dans le cavalier vêtu d’une tunique noire, blanche et rouge et, dans la femme à la large coiffe blanche qu’il regarde, sa troisième épouse Marie de Berry, fille du duc de Berry. Mais pour Patricia Stirnemann, c’est le personnage en bleu devant lui, coiffé de la couronne de feuillage qui serait le fiancé : Jean de Bourbon, habillé comme lors des fiançailles dans la miniature d’Avril, y est représenté à l’occasion de son mariage avec Marie de Berry32. Selon Millard Meiss, l’identification des personnages est confirmée par la présence, sur les harnais des chevaux, de cercles d’or à sept petits disques, emblème de la maison de Bourbon. Un autre indice tient dans l’insigne porté par les hérauts, qui est similaire à l’emblème de l’ordre de l’Écu d’or, fondé par Louis II de Bourbon en 1367, même si on en retrouve très peu de représentation après 137035.
Les constructions de l’arrière-plan ont donné lieu à des interprétations divergentes. Selon Edmond Morand36, il s’agirait du palais ducal de Riom, propriété du duc de Berry qui le fit reconstruire. Cependant, la disposition des bâtiments a été modifiée. Selon Saint-Jean Bourdin, il s’agirait de l’entrée à Riom de Bernard d’Armagnac remettant sa fille, Bonne, à son fiancé Charles d’Orléans, en présence du duc de Berry, avant le mariage qui eut lieu en . Selon Papertiant37, il s’agirait plutôt du palais de la Cité à Paris avec le Châtelet à gauche, la Conciergerie et la tour de l’Horloge. Cette vue rappellerait alors le lieu du mariage de Jean de Bourbon et de Marie de Berry. En 1410, Jean de Bourbon venait d’accéder à la couronne ducalec 17.
C’est une illustration des travaux paysans avec une scène de fenaison. Au premier plan, une femme râtelle du foin et une autre le met en meule à l’aide d’une fourche. Il est en effet étalé chaque matin pour le sécher et rassemblé chaque soir en meulons pour éviter l’humidité de la nuit. Cette activité souvent féminine contribue à faciliter le séchage du foin avant qu’il soit ramassé. Trois faucheurs forment des andains au second plan à droite, en laissant de petites bandes d’herbe non fauchée. La coupe a lieu en plein soleil, c’est pourquoi chacun s’est protégé la tête d’un chapeau ou d’un tissu. Les faucheurs portent une courte chemise de toile fendue sur les cuisses et travaillent jambes et pieds nus38. D’autres personnages minuscules sont représentés dans une barque sur le fleuve, dans l’escalier menant à la poterne et dans l’escalier couvert à l’intérieur du palaisc 18.
La scène se déroule en bordure de Seine, dans un champ situé à l’emplacement de l’hôtel de Nesle, résidence parisienne du duc de Berry. On y trouve de nos jours la bibliothèque Mazarine. Comme ici, les prés représentés dans les calendriers sont souvent situés près d’un ruisseau ou d’un plan d’eau38. De l’autre côté du fleuve s’étend dans toute sa longueur le palais de la Cité, siège de l’administration royale, avec successivement les jardins du roi, la Salle sur l’eau, les trois tours Bonbec, d’Argent et César, puis la tour de l’Horloge. Derrière la galerie Saint-Louis au centre, les deux pignons de la Grande Salle, le Logis du roi et la tour Montgomery. À droite, la Sainte-Chapellec 18. Selon Stirnemann, il s’agit de la suite de la scène de Mai, avec la cérémonie du mariage qui s’est déroulée dans ce palais : les invités y gravissent un escalier extérieur32.
Selon Meiss, la miniature, attribuable à Paul de Limbourg, fut achevée par Jean Colombe ; d’après Cazelles, elle date de 1440 au vu des bâtiments représentésc 18. Même si le dessin sous-jacent est de la main des frères de Limbourg, le peintre intermédiaire qui pourrait être Barthélemy d’Eyck y a laissé plusieurs indices montrant qu’il a au moins achevé la peinture : la peau blanche et les yeux des paysannes du premier plan laissant voir leurs pupilles et le blanc, mais aussi quelques ombres projetées sous la barque et la robe de la paysanne de droite, et enfin les petits personnages du palais4.
Les travaux du mois de juillet représentent la moisson et la tonte des moutons. Deux personnages fauchent les blés à l’aide d’un volant et d’une baguette. Un volant est une longue faucille ouverte dont le manche fait angle avec le plat de la lame. À l’aide de la baguette, ils dégagent un paquet de tiges qu’ils coupent en lançant le volant. Les moissonneurs avancent de l’extérieur de la parcelle en se dirigeant vers son centre en tournant. L’un d’entre eux porte une pierre à aiguiser à la ceinture39. Deux autres personnages, dont une femme, coupent la laine des moutons à l’aide de forcesc 19.
Exception faite des montagnes imaginaires, le paysage représente, au premier plan, la rivière Boivre se jetant dans le Clain, à proximité du château triangulaire de Poitiers représenté au second plan, distinct du palais des Comtes du Poitou, situé lui sur le plateau. Propriété du duc de Berry, le château fut reconstruit sans doute à partir de 1378 sur ordre du duc par son architecte Guy de Dammartin40. La représentation du château dans cette miniature est conforme aux travaux menés pour le duc, même si Millard Meiss a mis en doute cette identification. La miniature a été peinte par Paul de Limbourg selon Meiss, par le peintre des années 1440 selon Cazellesc 19.
La miniature présente plusieurs plans. Au premier figure une scène de fauconnerie : le cortège à cheval part pour la chasse, précédé d’un fauconnier. Celui-ci tient dans la main droite le long bâton qui lui permettra de battre arbres et buissons pour faire s’envoler le gibier. Il porte deux oiseaux au poing et, à la ceinture, un leurre en forme d’oiseau que l’on garnissait de viande pour inciter les faucons à revenir. Le cortège est accompagné de chiens destinés à lever le gibier ou à rapporter celui qui aura été abattu. Sur leur cheval, trois personnages portent un oiseau, sans doute un épervier ou un faucon émerillonc 20.
Au second plan sont représentés les travaux agricoles du mois d’août. Un paysan fauche le champ, un deuxième réunit les épis en gerbes alors qu’un troisième les charge sur une charrette tirée par deux chevaux. À proximité, d’autres personnages se baignent dans une rivière — peut-être la Juine — ou se sèchent au soleilc 20. À l’arrière-plan se dresse le château d’Étampes, que le duc de Berry avait acquis en 1400, à la mort de Louis d’Évreux, comte d’Étampes. Derrière les remparts, on distingue le donjon quadrangulaire et la tour Guinette, qui existe toujours. Le duc de Berry offrit le château à Charles d’Orléans, mari de sa petite-fille Bonne d’Armagnac, peut-être représentée ici sur un cheval blanc. Selon Saint-Jean Bourdin, cette scène représente la prise de possession du château par cette dernière, avant 1411, hypothèse confirmée par Patricia Stirnemann32. Mais pour lui, le couple est représenté à gauche : le duc de Berry est sur le cheval blanc (bien qu’assis en amazone) et le duc et la duchesse d’Alençonse trouvent à droite. Pour Meiss, la miniature est de Jean de Limbourg alors que pour Cazelles, elle est de « Limbourg B », avec peut-être un ajout de la scène centrale vers 1440c 20.
Septembre est illustré par les vendanges. Au premier plan, cinq personnages cueillent du raisin tandis qu’un homme et une femme, apparemment enceinte, se reposent. Les grappes sont déposées dans des paniers qui sont ensuite vidés dans des hottes fixées sur des mulets. Ces hottes sont elles-mêmes déversées dans des cuves chargées dans des charrettes tirées par des bœufsc 21.
L’arrière plan est entièrement occupé par le château de Saumur en Anjou, région déjà viticole à l’époque. Les tours sont coiffées de girouettes à fleurs de lys. Au second plan, une lice est représentée avec sa barre centrale et son mur de treillage. C’était le lieu habituel des tournoisc 21.
Tout le monde s’accorde à distinguer deux mains dans cette enluminure : l’une dans la scène de vendange, l’autre dans le château et ses abords. Longtemps, le château a été attribué aux frères de Limbourg, et plus particulièrement à Paul par Meiss. Cependant, entre 1410 et 1416, le propriétaire du château était Louis II d’Anjou, allié du duc de Bourgogne Jean sans Peur puisqu’il fiança en 1410 son fils aîné Louis III d’Anjou à l’une des filles de celui-ci. Cela en faisait donc un opposant au parti du roi de France, donc au duc de Berryc 21.
Le style de la partie supérieure de la miniature fait plutôt penser au peintre des années 1440, Barthélemy d’Eyck. Cette hypothèse est confirmée par le fait que le château appartenait alors à René d’Anjou, fils de Louis II et mécène de ce peintre. À l’extrémité droite de la lice se trouve un édicule quadrangulaire orné de colonnes engagées appelé « perron ». Il s’agit d’un édifice qui fut utilisé lors d’un tournoi de chevalerie, le « Pas de Saumur », organisé sur place par René d’Anjou en 1446 en l’honneur du roi de France Charles VII et auquel a participé Jean de Dunois. Le compte-rendu de ce tournoi, aujourd’hui disparu, a été illustré par Barthélemy d’Eyck, représentant sans doute ces lices et ce perron. Quant à la partie inférieure, elle pourrait avoir été réalisée par Jean Colombe ou son atelier4.
La scène paysanne du premier plan représente les semailles. À droite, un homme sème à la volée. Des pies et des corneilles picorent les graines qui viennent d’être semées, à proximité d’un sac blanc et d’une gibecière. Au fond du champ, un épouvantail en forme d’archeret des fils tendus, sur lesquels sont accrochés des plumes, sont destinés à éloigner les oiseaux. À gauche, un paysan à cheval passe la herse sur laquelle est posée une pierre qui permet aux dents de pénétrer plus profondément dans la terre. Il recouvre ainsi les grains qui viennent d’être semés. C’est un cheval qui herse et non des bœufs car ses sabots plus légers écrasent moins le sol. Sa couverture est découpée en lanière afin d’éloigner les insectes41.
À l’arrière-plan, le peintre a représenté le Palais du Louvre, tel qu’il fut reconstruit par Charles V. Du château au centre, on distingue, outre le donjon central qui accueillait alors le trésor royal, la façade orientale à droite, encadrée par la tour de la Taillerie et la tour de la Chapelle, et à gauche la façade méridionale, avec ses deux tours jumelées au centre. L’ensemble est entouré d’une enceinte ponctuée de trois tours et de deux bretèches, visibles ici. Sur la rive, des personnages conversent ou se promènent. C’est la seule représentation de bourgeois de tout le calendrier, personnages habituellement plus présents dans les livres d’heures flamands de l’époque42. Des barques sont amarrées à la berge. Comme celle de juin, la scène est prise depuis les bords de Seine, à proximité de l’hôtel de Nesle, en regardant vers le nordc 22.
Si le château est sans doute l’œuvre des frères de Limbourg avec des gargouilles en tortillons qui se retrouvent fréquemment dans les bâtiments qu’ils représentent, toute la partie basse est sans doute de la main du peintre intermédiaire, et donc peut-être Barthélemy d’Eyck, sur un dessin préparatoire des Limbourg. Luciano Bellosi a souligné le fait que les petits personnages sur la berge sont habillés d’une tunique cintrée et en trapèze au-dessus du genou, tel qu’on peut le voir dans la mode des années 1440 et notamment dans le frontispice des Chroniques de Hainaut peint par Rogier van der Weydenms 17. Si cette hypothèse a été contestée, la présence des ombres projetées systématiques près des personnages, des animaux, et même des objets, ainsi que les détails triviaux (crottin de cheval dans le champ) rappellent à de nombreuses reprises le style de Barthélemy d’Eyck4.
La miniature représente une scène paysanne traditionnelle d’automne : la glandée. Un porcher, accompagné d’un molosse, fait paître un troupeau de porcsdans un bois de chênes. À l’aide d’un bâton qu’il jette, il frappe les branches pour en faire tomber les glands. Le porc, engraissé puis tué et salé, permettra de préparer l’hiver et de se nourrir toute l’annéec 23. Le droit de pratiquer la glandée ou paisson est généralement accordé de la Saint-Rémi, le 1er octobre, quand les glands tombent, à la Saint-André, le 30 novembre43.
On aperçoit à l’arrière-plan un château accroché aux rochers et une rivière qui serpente entre les montagnes bleuies. Ce paysage rappelle ceux de la Savoie. La miniature, réalisée vers 1485-1486, est attribuée à Jean Colombe, qui travaillait alors pour Charles Ier de Savoiec 23. Cependant, un dessin très similaire se retrouve dans une miniature du calendrier des Heures de Dunoisms 8 datées de 1436 : le maître de Dunois, auteur de cette miniature pourrait s’être inspiré d’un dessin préparatoire réalisé par les frères de Limbourg pour les Très Riches Heures. Jean Colombe aurait alors achevé ce dessin 70 ans après la mort des trois frères et 50 ans après le maître parisien4.
La position du corps du paysan rappelle celle d’un autre personnage de Colombe : celle du bourreau frappant saint Marc dans la miniature mettant en scène le martyre de ce dernier (f.19v.). Il pourrait alors s’agir ici d’une évocation de la légende qui rapporte que les reliques du saint auraient été rapportées d’Alexandrie à Venise sous un tas de viande de porc pour éviter qu’elles ne soient inspectées par les douaniers musulmans44.
Pour le dernier mois de l’année, le peintre n’a pas retenu l’iconographie traditionnelle de la tuerie de cochon pour Noël pour préférer une scène de vénerie. Il s’agit plus précisément de la curée, au moment où l’un des chasseurs, à droite, achève de sonner l’hallali. Les chiens dépècent le sanglier. La scène se déroule au centre d’une forêt dont les arbres sont encore en feuillesc 24.
À l’horizon se dresse le château de Vincennes, achevé par Charles V, avec son donjon central et ses tours, aujourd’hui en grande partie arasées. Ce château est le lieu de naissance du duc Jean de Berry, ce qui pourrait expliquer sa présence ici45. Il fut aussi choisi par Jean Fouquet, vers 1455, comme arrière-plan de l’enluminure Job sur son fumier dans le livre d’heures d’Étienne Chevalierc 24.
Cette scène de curée est souvent rapprochée d’un dessin attribué à Giovannino de’ Grassi, actuellement conservé à la bibliothèque de Bergame46, au contenu presque identique, avec les mêmes animaux dans les mêmes postures, mais quelques chiens en moins. Pour Meiss, la miniature du mois de décembre serait le modèle de ce dessin et Paul de Limbourg en serait l’auteur. Cependant, le fait que des chiens ont été ajoutés impliquerait l’inverse. Luciano Bellosi y voit plutôt une œuvre du peintre des années 1440c 24. Cette hypothèse est renforcée par la forme des visages des personnages, aux yeux révulsés et aux visages maussades, qui rappellent les personnages du Livre du cœur d’Amour éprisms 6.
Les huit grandes miniatures exceptionnelles
Huit miniatures ont été insérées dans le manuscrit sur des feuillets isolés sans appartenir à l’origine à un autre cahier du livre. Paul Durrieu les repère et les qualifie d’« exceptionnelles » dès sa publication de 190447. Elles sont toutes plus grandes que les autres et ne comprennent aucun texte, ni à côté de la peinture, ni au verso. Lorsque du texte est présent, il a été ajouté par une autre main — sans doute celle de Jean Colombe — dans les années 1480. Leur disposition sur la page est à chaque fois originale et décalée par rapport au reste du manuscrit. Enfin, elles ne s’insèrent pas véritablement dans le plan du livre d’heures. Paul Durrieu pense même qu’à l’origine elles n’étaient pas destinées aux Très Riches Heures mais qu’elles ont été commandées aux frères de Limbourg pour un autre manuscrit48. Elles ne sont d’ailleurs pas signalées dans l’inventaire après-décès du duc en 1416. Les thèmes développés dans ces enluminures sont surtout inspirés de l’Antiquité ou de l’Italiec 25.
L’Homme anatomique, folio 14
L’Homme anatomique, f.14.
Cette miniature prend place à la fin du calendrier. Un tel thème, ne se retrouve dans aucun autre livre d’heures de cette époque. Elle représente l’influence des astres sur l’homme. Il se peut qu’elle soit inspirée d’ouvrages traitant de médecine ou d’astrologie. Plusieurs manuscrits avaient déjà représenté comme ici un homme dont les différentes parties du corps sont reliées à un des douze signe du zodiaque, sous le nom de homo signorum ou homme zodiacal. L’originalité tient ici dans le dédoublement de l’homme et la double mandorle qui l’entoure, dans laquelle sont reproduits à nouveau les signes du zodiaque. Si plusieurs hypothèses ont été avancées pour expliquer cette iconographie (allégories homme-femme ou encore jour-nuit), aucune d’entre elles ne permet d’expliquer de manière définitive ce dédoublement49.
Dans chaque coin supérieur de la miniature sont peintes les armes du duc de Berry : « trois fleurs de lys d’or sur fond d’azur avec bordure engrêlée de gueule ». Dans chaque coin inférieur, est placé le chiffre « VE » ou « UE » enlacés. Ces lettres ont fait l’objet d’interprétations diverses : il s’agit soit d’une allusion aux premières lettres d’une devise du duc « En Vous » ; soit d’une allusion à la première et dernière lettre du nom « Ursine ». Ce nom fait lui-même l’objet d’une double interprétation : soit saint Ursin, le patron du duché de Berry, soit le nom d’une maîtresse que le duc aurait connue en captivité en Angleterre. Ce nom se retrouve dans des symboles héraldiques parlants qui parsèment à plusieurs reprises les marges du manuscrit : l’ours et le cygnec 26,50.
Chaque coin est complété par quatre inscriptions latines décrivant les propriétés de chaque signe selon les quatre complexions (chaud, froid, sec ou humide), les quatre tempéraments (colérique, mélancolique, sanguin et flegmatique) et les quatre points cardinaux : « le Bélier, le Lion et le Sagittaire sont chauds et secs, colériques, masculins, orientaux » en haut à gauche ; « le Taureau, la Vierge et le Capricorne sont froids et secs, mélancoliques, féminins, occidentaux »en haut à droite ; « les Gémeaux, le Verseau et la Balance sont chauds et humides, masculins, sanguins, méridionaux » en bas à gauche ; « le Cancer, le Scorpion et les Poissons sont froids et humides, flegmatiques, féminins, septentrionaux » en bas à droite. La miniature, datant d’avant 1416, est attribuée à l’un des frères de Limbourg51,c 26.
Le Paradis terrestre, folio 25
Le Paradis terrestre, f.25.
Sur une seule et même miniature de forme ronde, située dans les Oraisons de la Vierge, sont représentées quatre scènes : de gauche à droite ; un serpent au corps de sirène tend à Ève le fruit de l’Arbre de la connaissance du bien et du mal ; Ève offre le fruit à Adam ; Dieu punit Adam et Ève, qui sortent du Paradis et prennent conscience de leur nudité en se couvrant d’une feuille de vignec 27.
Parmi les sources d’inspiration, la figure d’Adam, à qui Ève donne le fruit défendu, est souvent identifiée à la statue d’un Perse agenouillé conservée à la galerie des Candélabres des musées du Vatican. Les frères de Limbourg ont déjà représenté un Adam dans la même position dans le folio 3 verso de la Bible moralisée de Philippe II de Bourgogne(1402)ms 18. Au centre de la composition, se trouve un monumental dais de style gothique, surmontant une fontaine de jouvence52. Pour le dessin d’ensemble, on peut établir une relation avec le bas-relief de la porte du baptistère Saint-Jean (Florence) par Lorenzo Ghiberti. Selon Meiss, la miniature est l’œuvre de Jean de Limbourg, « Limbourg C » selon Cazellesc 27.
Sources d’inspiration de la miniature du Paradis terrestre
Le Guerrier perse agenouillé, galerie des Candélabres, musées du Vatican, inv 2794
Cette miniature, placée dans les Heures de la Vierge, est peinte sur un parchemin un peu plus épais que le reste du manuscrit. Ce thème iconographique provient de l’ouvrage La Légende des rois mages de Jean de Hildesheim, écrit au xive siècle. Chaque roi dirige un cortège. Les trois groupes prennent la direction d’un édicule situé au centre, appelé aussi montjoies, surmonté de l’étoile. Les rois mages ne représentent pas les trois continents, comme c’est le cas dans la Légende dorée, mais les trois âges de la vie : l’adolescent, l’homme et le vieillard. Gaspard, le jeune en haut à droite, est suivi de deux personnages noirs, comme le veut une tradition iconographique italienne. Balthasar, l’homme, est placé à gauche et Melchior, le vieillard, en bas à droite. Ce dernier possède la même couronne que l’empereur Auguste représenté au folio 22. Par ailleurs, divers animaux sauvages sont peints : des guépards, un lion, un lézard ainsi qu’un ours, symbole du duc de Berryc 28.
Plusieurs historiens ont fait le lien entre l’inspiration orientale de ces personnages ou animaux et la visite à Paris de l’empereur byzantin Manuel II Paléologue en 1400, que les frères de Limbourg ont peut-être eu l’occasion de voir53. Le mage de gauche est la copie presque exacte d’un revers d’une médaille byzantine représentant l’empereur Constantin à cheval, acquise par le duc de Berry en 1402 auprès d’un marchand italien et mentionné dans un de ses inventaires23. La ville en haut à gauche est censée représenter Jérusalem mais elle reprend plusieurs monuments parisiens : Notre-Dame de Paris, la Sainte-Chapelle et peut-être une partie du palais de la Citéc 28.
L’Adoration des mages, folio 52
L’Adoration des mages, f.52.
À droite de la miniature sont représentés les rois mages ainsi que leur suite. Ayant enlevé leur couronne, les trois rois sont prosternés : l’un — Melchior — baise les pieds du Christ, le deuxième — Balthasar — embrasse le sol, comme dans le livre de Jean de Hildesheim, et le troisième — Gaspard — porte son présent. En même temps que les mages sont représentés, les bergers sont eux aussi en adoration devant l’Enfant Jésus. Ils sont présents l’un à côté de la Vierge, les autres derrière la crèche, leurs moutons paissant sur les collines à l’arrière. Les jours de Noël et de l’Épiphaniesont ainsi représentés simultanément sur la même image. La Vierge est entourée de femmes habillées en costumes à la mode du début du xve siècle. La ville à l’arrière, censée représenter Bethléem, reprend peut-être l’apparence de la ville de Bourges avec la Grosse Tour, la cathédrale et la Sainte-Chapellec 29.
La disposition des personnages autour du Christ a été rapprochée d’une scène d’adoration des mages représentées sur un retable actuellement conservé au Museum Mayer van den Bergh d’Anvers(inv.2, vers 1395). Outre le fait que ces personnages se présentent dans la même position autour du Christ, le roi mage à gauche de la Vierge, transformé en saint Joseph par les Limbourg, tient dans ses mains la même pièce d’orfèvrerie en forme de corne, forme relativement rare à l’époque54. D’après le style, le peintre de cette Adoration ne serait pas le même que celui de la Rencontre. Meiss l’attribue à Paul de Limbourgc 29.
La Purification de la Vierge, folio 54
La Purification de la Vierge, f.54.
D’après l’Évangile selon Luc, le moment de la présentation de Jésus au Templecorrespond à la cérémonie de purification de sa mère, quarante jours après sa naissance. Ce feuillet a été placé dans les Heures de la Vierge au début de none, mais aurait tout aussi bien pu se trouver dans les Heures de l’année liturgique, avant l’office de la Chandeleursitué au folio 203c 30.
La Vierge tient le Christ dans ses bras ; une auréole émane de sa tête et se mêle à celle de son fils. Elle est suivie de Joseph et d’un cortège de personnages. Une servante, seule sur les marches, assure la transition avec le grand prêtre situé plus haut. Elle porte les deux colombes offertes en sacrifice, ainsi qu’un ciergealluméc 30.
Par sa composition, la miniature peut être rapprochée d’une fresque de la basilique Santa Croce de Florence dans la chapelle Baroncelli, attribuée au maître de la Chapelle Rinuccini (autrefois attribuée à Taddeo Gaddi). L’escalier y est presque identique, ainsi que l’expression de certains personnages. Une reproduction sous forme de dessin est aujourd’hui conservée au musée du Louvre. Selon l’historien de l’art allemand Harald Keller55, le dessin aurait pu servir de modèle aux frères de Limbourg, mais cette hypothèse a été mise en doute par Meissc 30.
La Chute des Anges rebelles, folio 64
La Chute des anges rebelles, f.64.
Cette miniature se trouve au tout début des Psaumes pénitentiaux. Pourtant, cette scène n’est pas évoquée dans cette partie de l’Ancien Testament mais seulement dans quelques passages du Nouveau Testament. Il s’agit de la révolte de Lucifer contre Dieu et, plus précisément ici, de sa défaite et de sa chute entraînant des légions d’anges avec luic 31.
Le Seigneur, assis sur un trône, domine la scène. Il tient le globe de sa main gauche et, de sa main droite, indique le jugement de Lucifer. Les anges fidèles se tiennent à ses côtés, assis dans des stalles que les anges révoltés ont laissées vides. La milice de Dieu, bardée de casques et de cuirasses et armée d’épées, précipite les anges rebelles dans l’abîme. Lucifer est représenté tout en bas, entouré d’un halo formant comme une anti-auréole, mais toujours pourvu de ses attributs d’ange, la couronne et l’étolec 31.
Cette iconographie, très rare dans un livre d’heures, a pu être inspirée par un panneau sur bois appartenant à un retable datant de 1340-1345, provenant de Sienne, attribué à un peintre anonyme surnommé le Maître des anges rebelles, et actuellement conservé au musée du Louvre56. La principale différence réside dans le fait que les anges du panneau siennois prennent l’apparence de démons. Cette miniature est l’œuvre de Paul de Limbourg selon Meiss, de « Limbourg C » pour Cazellesc 31.
L’Enfer, folio 108
L’Enfer, f.108.
Cette miniature est placée à la fin de l’Office des Morts. Elle est inspirée d’un texte du milieu du xiie siècle, Les visions de Tondale, récit d’un moine irlandais dénommé Marcus décrivant une vision de l’enfer et qui a fortement influencé l’imaginaire médiévalc 32,57.
Au centre de la composition, Satan est allongé sur un gril gigantesque d’où il saisit les âmes pour les projeter vers le haut par la puissance de son souffle brûlant. Des flammes sortent de lucarnes ouvertes dans les montagnes tourmentées se dressant à l’arrière-plan, où l’on aperçoit d’autres âmes damnées. Au premier plan, deux diables attisent le feu sous le gril à l’aide de trois grands soufflets. D’autres démons font subir des sévices aux hommes qui ont mal vécu, y compris un religieux tonsuré qui porte encore ses vêtements sacerdotauxc 32.
Selon Meiss, la place de cette miniature aurait été prévue entre l’office de la Trinité et le petit office des morts, soit entre les feuillets 113 et 114. Jean de Limbourg en serait l’auteur. Cependant, comme les autres miniatures exceptionnelles, elle aurait tout aussi bien pu ne pas être peinte pour ce manuscrit. Il s’agirait de « Limbourg C » selon Cazellesc 32.
Le Plan de Rome, folio 141
Le Plan de Rome, f.141.
La miniature, de forme ronde, s’insère entre les Offices de la Semaine et les Heures de la Passion. Sans aucun lien apparent avec cette partie du manuscrit, elle était peut-être destinée à illustrer, à l’origine, un Office de saint Pierre et saint Paul, tous deux martyrisés à Rome. Ce plan de la ville éternelle est réalisé comme une vue à vol d’oiseau, avec le nord en bas et le sud en haut. Ne sont représentés que les monuments antiques ou chrétiens, sans aucun bâtiment résidentiel ni aucune rue. Le plan semble centré sur le Capitolec 33.
C’est une tradition antique de réaliser des cartes de formes rondes, tradition qui se poursuit tout au long du Moyen Âge. Ce sont surtout les mappemondes qui sont représentées ainsi mais beaucoup moins fréquemment les plans de villes. Le duc de Berry lui-même possédait plusieurs mappemondes de cette forme. Symboliquement, la ville de Rome renvoie au monde et le monde renvoie à la ville58.
Il existe plusieurs œuvres en rapport avec ce plan. En premier lieu celui peint par Taddeo di Bartolo au Palazzo Pubblico de Sienne, dans la série de fresque des Allégories et figures de l’histoire romaine(1413-1414). Meiss a retrouvé un autre plan de Rome très proche, mais représentant plus de monuments, dans un manuscrit de la Conjuration de Catilina de Salluste, attribué au Maître d’Orosems 19datant de 1418. Cependant, Meiss ne pense pas qu’il y ait une relation directe avec celui des Très Riches Heures, mais plutôt une influence par le biais d’œuvres intermédiaires aujourd’hui disparuesc 33. Un autre plan de Rome proche de celui des Très Riches Heures a été identifié dans un manuscrit du xive siècle du Compendium de Paolino da Venezia (f.98)ms 20,59.
Une autre hypothèse voit dans le centre du plan des Très Riches Heures, la basilique Sainte-Marie d’Aracœli, située sur le Capitole : cette église serait située sur le lieu où la Vierge et l’Enfant seraient apparus à l’empereur Auguste, scène de prédilection du duc de Berry : elle se retrouve dans les Heures du Maréchal Boucicautms 21, dans les Belles Heures (f. 26v)ms 1 ainsi que dans les Très Riches Heures (f. 22r). Le duc vouait en effet une admiration à l’empereur et aimait être comparé à lui58. La miniature est de Jean de Limbourg selon Meiss, de « Limbourg C » selon Cazellesc 33.
Interprétation de l’iconographie
Les sources d’inspiration
Les Frères de Limbourg et leurs continuateurs ont travaillé sur le manuscrit en France, à Paris ou à Bourges sans doute, et se trouvent ainsi à l’époque au croisement entre l’influence de l’art des Pays-Baset celui venu d’Italie. L’influence des Pays-Bas peut sembler évidente quand on sait que les frères de Limbourg sont originaires de Nimègue, alors dans le duché de Gueldre. Cependant, il est difficile de distinguer dans les Très Riches Heures une influence directe de l’art des provinces du nord. Parmi les rares œuvres de cette époque que l’on peut rapprocher du manuscrit, un retable, actuellement conservé au musée Mayer van den Bergh, présente des similitudes avec certaines scènes peintes par les trois frères. Il provient de la région mosane ou du sud des Pays-Bas et prend la forme d’une tour, présentant des scènes de l’enfance du Christ60. Les Limbourg ont peut-être pu observer cette œuvre à l’occasion d’un passage dans le Brabant où le retable semble avoir été conservé. Mais il reste difficile trouver des traces d’autres œuvres nordiques ayant pu inspirer les Limbourg54.
Exemples d’œuvres italiennes ayant pu influencer certaines miniatures des Très Riches Heures’
Ce n’est pas le cas en revanche des sources d’inspiration italienne. Elles sont relativement abondantes dans plusieurs miniatures. Outre celles déjà citées, on note par exemple une influence du retable Orsinipeint par le siennoisSimone Martini dans plusieurs scènes de la Passion du Christ des Très Riches Heures : Le Portement de la croix(f.147), ou encore La Descente de croix (f.156v). L’influence italienne est tellement évidente que pour Meiss, l’un des trois frères, peut-être Paul, a fait le voyage en Italie, et ce par deux fois. Cependant, l’influence des œuvres italiennes se fait essentiellement à travers certaines compositions et certains motifs, notamment dans la position des personnages ou des animaux. Si les frères de Limbourg avaient véritablement été confrontés à des œuvres italiennes, l’influence aurait été ressentie jusque dans les modelés des figures ou des draperies. Sans avoir traversé les Alpes, les trois frères peuvent tout à fait avoir été influencés par des croquis ou dessins rapportés de là-bas, des manuscrits enluminés ou par quelques panneaux peints italiens déjà présents en France à l’époque61.
L’identification des personnages et des symboles
Dès les premières études, les iconographes ont tenté d’identifier des personnes ayant existé dans les personnages des enluminures et notamment dans ceux du calendrier. Lors de sa première observation du manuscrit, le duc d’Aumale reconnaît Jean de Berry dans la miniature de janvier et par la suite, de nombreux chercheurs ont tenté d’identifier d’autres personnages. Mais autant la première identification n’a jamais posé de problème, autant les autres n’ont jamais permis d’accorder les historiens de l’art entre eux62. Les tentatives d’identification se sont multipliées au sujet de la miniature de janvier, mais aussi pour celles d’avril, de mai et d’août, car beaucoup de scientifiques pensent que les personnages devaient être connus des personnes amenées à consulter l’ouvrage au xve siècle. La tentative la plus affirmée est celle de Saint-Jean Bourdin pour qui chaque scène correspond à un événement précis de l’histoire de Jean de Berry, tel un album de famille ; mais les universitaires ont presque tous repoussé ses identifications, soulignant des incohérences de générations et de dates63.
Exemples de tentatives d’identification de personnages
Représentation de Jean de France, duc de Berry, Janvier, f.1.
Représentation des frères de Limbourg ? Janvier, f.1.
Fiançailles de Marie de Berry, fille du duc de Berry, et de Jean Ier de Bourbon le 27 mai 1400 ou celles de Bonne d’Armagnac avec Charles Ier d’Orléans, le 18 avril 1410 ? Avril, f.4.
Jean Ier de Bourbon à gauche et Marie de Berry ? Mai, f.5.
De plus en plus d’historiens de l’art ont tenté de se défaire de cette vision, selon eux insoluble, de l’ouvrage pour rechercher une explication de cette représentation réaliste des personnages. Pour Erwin Panofsky, cette représentation est à mettre en perspective avec la tendance, toujours plus affirmée dans le courant du xve siècle, des artistes à verser dans le naturalisme64. Cependant, selon des études plus récentes comme celle de Stephen Perkinson, cette explication quelque peu téléologique de l’histoire de l’art doit être mise de côté pour une explication plus en phase avec les mentalités des peintres de cour à cette époque65.
Selon Perkinson, l’identification d’un personnage à cette époque se faisait, non pas par la représentation réaliste d’un visage, mais bien davantage par tout un ensemble de signes para-héraldiques, tels qu’ils ont été définis notamment par Michel Pastoureau66. L’étude de ces signes permet ainsi de reconnaître des messages politiques contenus dans certaines miniatures. Lorsque les soldats, qui accompagnent le Christ dans sa Passion (folios 143, 146v et 147), portent en sautoir la croix blanche de Saint-André, signe de ralliement des Bourguignons lors de la guerre de Cent Ans, c’est un moyen pour le duc de Berry, chef du parti adverse des Armagnacs de désigner ses ennemis comme les ennemis de Dieu45.
L’entourage du duc ou ses artistes pouvaient facilement distinguer ces signes à l’époque, mais ils nous restent profondément obscurs aujourd’hui : la couleur d’un habit, les motifs d’un costume, les décors d’une tenture, la devise partiellement inscrite. Autant de signes volontairement obscurs car réservés à quelques happy few se voulant proches du duc et seuls capables de distinguer ces symboles. Seul le portrait de Jean de Berry est réaliste car c’est le commanditaire de l’ouvrage et patron des artistes. Un portrait réaliste des autres personnages n’était donc pas nécessaire, mais seulement accessoire parmi les nombreux signes permettant de les identifier. Pour autant, rien ne nous dit jusqu’à présent que ces personnages pourraient être identifiés formellement. Cet ensemble de signes complexes et difficilement déchiffrables est un moyen pour les frères de Limbourg de montrer leur familiarité avec le duc et sa famille ainsi que leur fidélité envers leur commanditaire67.
Les représentations architecturales
Plusieurs miniatures représentent de manière très détaillée des bâtiments contemporains des Très Riches Heures, à tel point que Panofsky parle de « portraits architecturaux »64. Neuf peintures du calendrier représentent des châteaux, dont huit ne font l’objet d’aucune contestation dans leur identification : le château de Lusignanpour le mois de mars, le Châtelet et le palais de la Cité pour mai, le palais de la Cité en juin, le château de Poitiers en juillet, le château d’Étampes en août, le château de Saumur en septembre, le château du Louvre en octobre et le château de Vincennes en décembre. D’autres bâtiments sont identifiables dans les autres miniatures du manuscrit : c’est le cas par exemple de plusieurs bâtiments de Poitiersdans L’Annonce aux bergers (f.48), une vue de Paris dans La Rencontre des rois mages (f.51v), une vue de Bourges dans L’Adoration des mages (f.52r), la façade de la cathédrale Saint-Étienne de Bourges dans La Présentation de la Vierge au temple(f.137), le château de Mehun-sur-Yèvre dans La Tentation Christ(f.161v) et enfin le Mont Saint-Michel dans La Fête de l’Archange(f.195)c 34.
Exemples de miniatures des Très Riches Heures représentant des bâtiments identifiés
D’autres bâtiments font l’objet de controverses. La miniature d’Avrilreprésente pour certains le château de Dourdan, mais pour Cazelles, il s’agit du château de Pierrefonds. Pour la miniature de Mai, on hésite entre les toits de Riom ou ceux de Paris, même si la majorité des historiens y voit plutôt la capitale du royaume. Enfin, la chapelle de La Messe de Noël (f.158) est parfois identifiée à la Sainte-Chapelle de Bourges mais plusieurs détails distinguent le bâtiment représenté de celui présent par exemple dans le livre d’heures d’Étienne Chevalierc 35. Ces bâtiments sont liés plus ou moins au duc de Berry. Le château de Poitiers a été construit par le duc à la fin du xive siècle, celui de Mehun-sur-Yèvre lui appartient jusqu’en 1412, celui de Lusignan jusqu’à sa mort, le château d’Étampes lui appartient à partir de 1400. Le duc a fait réaliser la grande fenêtre et le pignon qui réunissent les deux tours de la cathédrale de Bourges représentées sur la miniature. Le palais de la cité, le château du Louvre et celui de Vincennes sont des résidences officielles du roi de France, soit successivement le père, le frère et le neveu du duc. Le lien entre le duc et le château de Saumur est plus ténu : il a appartenu à Yolande d’Aragon, belle-sœur de Jean de Berry mais surtout belle-mère de Charles VII. Ce lien a fait penser que Yolande avait été la seconde propriétaire des Très Belles Heures, d’autant qu’elle a été, de manière attestée, propriétaire des Belles Heures du duc de Berryms 1. Cette miniature a en effet été réalisée par le peintre intermédiaire des années 1440. Cependant, ce peintre a aussi réalisé les vues des châteaux de Lusignan, Poitiers, la Cité, le Louvre, Vincennes. Un seul personnage fait le lien entre ces six châteaux, il s’agit du roi Charles VII lui-même, ce qui fait dire que ce peintre intermédiaire vivait dans l’entourage immédiat du roic 36.
Pour expliquer la raison de ces représentations réalistes, là encore, plusieurs historiens de l’art comme Panofsky et Meiss ont avancé la tendance au plus grand naturalisme de la peinture à l’époque. Il s’agit aussi, par ailleurs, de montrer, au duc et au propriétaire suivant du manuscrit, l’étendue de ses actuelles et anciennes possessions68. Ces représentations pourraient avoir été inspirées par un registre des fiefs du duc illustré de ses principales propriétés, aujourd’hui disparu, tout comme l’avait fait auparavant Louis II de Bourbon dans son Registre des fiefs du comté de Clermont-en-Beauvaisis (vers 1371-1376)ms 22 ou plus tard Charles Ier de Bourbon dans l’Armorial de Guillaume Revelms 23,24.
La représentation des paysans
Les miniatures des Très Riches Heures sont souvent présentées comme proches des réalités de la vie quotidienne. Elles s’attachent particulièrement à représenter deux des trois ordres, ceux qui combattent et travaillent, les seigneurs et les paysans. Si cette représentation des paysans s’attache à un certain naturalisme, elle reste sans doute empreinte de l’idéologie du commanditaire selon l’historien Jonathan Alexander. En effet, même si ces représentations semblent réalistes dans les détails des travaux des champs, les paysans sont systématiquement représentés selon lui comme des personnages « incultes, grossiers, vulgaires ». On les voit ainsi souvent dans des positions scabreuses, avec leurs parties génitales visibles par exemple dans la miniature de février, tournant leur postérieur vers le lecteur dans celles de mars ou de septembre, les bergers ont leurs vêtements en lambeaux dans celle de juillet. Mêmes les boutons dorés que porte le berger de gauche sur son manteau déchiré dans L’Annonce aux bergers (f.48), sont un moyen de le ridiculiser, tel un vulgaire voulant s’habiller au-dessus de son statut. Ces représentations sont mises systématiquement en opposition avec les représentations idylliques des aristocrates dans les autres miniatures du calendrier ou parfois même dans la même miniature comme dans celle d’août69.
Pour Panofsky, le calendrier des Très Riches Heures marque un tournant dans l’histoire des calendriers du Moyen Âge : « une présentation purement descriptive de travaux et de passe-temps saisonniers dans le cadre d’une société stratifiée, mais essentiellement homogène [tels qu’ils sont figurés dans les premiers calendriers] se transforme ici en une caractérisation antithétiques de deux classes divergentes »70. Pour Jonathan Alexander, cette représentation va plus loin, il s’agit de la vision véritablement méprisante du monde paysan par le commanditaire de l’ouvrage. En effet, Jean de Berry, prince dépensier, est connu pour avoir particulièrement pressuré ses sujets pour en extorquer des impôts en grande quantité. Jean Froissart va même jusqu’à le qualifier d’« homme le plus avare du monde ». La présence de ses châteaux dominant les scènes paysannes rappelle cette pression exercée sur ses sujets71.
Influence et diffusion de l’œuvre
L’influence du manuscrit sur les autres enlumineurs
Les frères de Limbourg ont été pendant une importante partie de leur carrière des artistes de cour et non des artistes d’atelier formant des élèves. Ils n’ont donc pas influencé directement une génération de peintres enlumineurs72. Pourtant, les historiens de l’art sont parvenus à trouver de multiples traces de l’influence des enluminures des Très Riches Heures sur les œuvres des autres artistes contemporains ou postérieurs.
Les frères de Limbourg exercent dans un premier temps une influence directe sur les enlumineurs contemporains : en embauchant d’autres peintres pour compléter le manuscrit, ceux-ci accèdent à leurs dessins et motifs qu’ils vont pouvoir copier ou imiter dans les manuscrits qu’ils réalisent pour leur propre compte, au même moment ou un peu plus tard. Cette influence est toujours partielle : en effet, les peintres collaborateurs ne devaient disposer que des cahiers qu’ils étaient chargés de compléter et non de la totalité de l’ouvrage. Ainsi le Maître de Bedford, en collaborant avec les frères de Limbourg, réutilise plusieurs éléments et détails dans plusieurs de ses œuvres telles que le Bréviaire de Louis de Guyenne dit aussi de Châteaurouxms 24, les Heures Lamoignonms 13 ou les Heures de Viennems 25, mais surtout dans les Heures de Bedfordms 12, notamment pour L’Adoration des mages (f.75r). C’est le cas aussi dans le Bréviaire de Jean sans Peurms 11. Une influence plus indirecte et un peu plus tardive, se retrouve chez le Maître de Spitz, actif à Paris dans les années 1420, dans le Livre d’Heures de Spitzms 26 et notamment le portement de croix (f.31) très similaire à celui des Très Riches Heures14,73.
L’influence des Très Riches Heures se retrouve aussi dans les manuscrits contemporains de Jean Colombe. En effet, celui-ci, en réalisant l’achèvement du manuscrit à Bourges, a contribué à faire connaître ses miniatures dans les milieux des enlumineurs berrichons. Ainsi dans les Heures à l’usage de Romems 27, réalisé dans l’entourage du peintre Jean de Montluçon vers 1500, l’influence des Très Riches Heures se retrouve dans le calendrier illustré en pleine page, le motif du laboureur, du semeur, de la vigneronne remettant sa coiffe en place ainsi que la scène de la glandée, identique mais inversée74. Cette influence se retrouve également dans les manuscrits enluminés par Colombe lui-même : ainsi dans le Livre d’heures à l’usage de Troyesms 28, on retrouve le palais de la cité, ainsi que des démons dans une scène infernale semblables à ceux de L’Enfer75.
Exemples de miniatures influencées par les Très Riches Heures
Pour l’historien belge Georges Hulin de Loo, « le calendrier du livre d’heure de Chantilly a exercé une influence énorme sur les miniaturistes flamands subséquents » cependant, « on ne sait comment il a été connu en Flandre »76. Pour Paul Durrieu, les enluminures du calendrier des Très Riches Heures, sont en effet reprises dans le calendrier du Bréviaire Grimani qui date de 1510ms 29et notamment les mois de février, mai, octobre, novembre (avec la même composition mais inversée) et décembre. C’est aussi le cas dans le Livre d’Heures de Hennessy, daté de 1530ms 30 avec par exemple le mois de décembre. Or ces deux manuscrits ont été réalisés dans le milieu des miniaturistes flamands du xvie siècle, notamment par Simon Bening. Pour Durrieu, cela renforce son hypothèse d’une présence des Très Riches Heures aux Pays-Bas à cette époque, propriété de Marguerite d’Autriche. Elle a, en effet, passé plusieurs commandes à ces mêmes peintres77. Il se peut aussi que cette influence résulte de livrets recopiant le livre d’heures et desquels ils ont repris ces motifs72.
Études et diffusion de l’œuvre à l’époque contemporaine
Découvertes et premières études du manuscrit
Après un quasi oubli de plus de trois siècles, l’achat effectué par le duc d’Aumale en permet sa diffusion. Il le montre ainsi, alors qu’il est encore en Angleterre, à Gustav Friedrich Waagen, qui en fait une première description dans son Galleries and cabinets of art in Great Britain publié en 185778. Mais c’est surtout Léopold Delisle, alors conservateur à la Bibliothèque nationale qui fait paraître la première véritable étude sur le manuscrit en 1884 dans un article consacré aux « Livres d’heures de Jean de Berry » : il le qualifie déjà de « roi des livres d’heures du duc de Berry » et en fait reproduire quatre miniatures79. Une nouvelle étude complète est publiée en 1903 par Hulin de Loo qui le qualifie alors de « roi des manuscrits enluminés »76.
Ces premières études sont concomitantes d’une véritable mode de l’enluminure médiévale en France à la fin du xixe siècle et début du xxe siècle dans les milieux de la très haute bourgeoisie et de l’aristocratie. Nombreux sont ceux parmi les plus riches à collectionner les manuscrits, tel Edmond de Rothschild, qui possède notamment les Belles Heuresms 1. Jean de Berry fait l’objet d’une véritable fascination dans ces milieux de collectionneurs80.
Les publications
Carte postale de la miniature du mois de janvier éditée par Jacques-Ernest Bulloz en 1925.
C’est par les publications des Très Riches Heures que celles-ci acquièrent leur renommée. Selon Michael Camille, le livre d’heures le plus célèbre n’a pas perdu de son aura par sa reproduction, contrairement à ce que dit Walter Benjamin dans son essai L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique, mais à l’inverse, il l’a gagné grâce cette nouvelle diffusion. En effet, celle-ci a constamment été particulièrement limitée et contrôlée, encourageant le mythe de l’ouvrage célèbre mais inaccessible81.
En 1904, Paul Durrieu publie la totalité des 65 grandes miniatures, imprimées en héliogravure et en noir et blanc, sauf une seule en couleur (Janvier). Mais le tirage de la publication est limité à 300 exemplaires82. À l’occasion de l’exposition sur « Les Primitifs français » qui se déroule la même année au pavillon de Marsan, le manuscrit original n’est pas exposé, ne pouvant sortir de Chantilly, seules douze héliogravures tirées de l’ouvrage de Durrieu sont présentées. Cela n’empêche pas les commentateurs de l’exposition de glorifier la grandeur de la peinture française produite par les artistes du duc de Berry83.
Il faut attendre 1940 pour qu’une première édition complète en couleur des miniatures du calendrier soit réalisée par l’éditeur Tériade dans sa revue Verve en photogravure84. Certaines enluminures sont d’ailleurs censurées au niveau des parties intimes de certains personnages. Cette première publication rencontre un grand succès, dans un contexte de retour aux traditions et à la glorification de l’histoire de la France éternelle du régime de Vichy. Les miniatures des scènes de la vie du Christ sont éditées en 1943. Le calendrier est diffusé auprès du public américain à l’occasion d’une parution dans le magazine Life en 1948. Là encore, les parties intimes de certains personnages sont censurées85.
Ce n’est qu’en 1969 que la totalité des miniatures sont publiées en couleur, selon la technique de la lithographieoffset par l’imprimeur Draeger86,c 6. Un fac-similé complet est édité en 1984, au tirage limité à 980 exemplaires, il est vendu 12 000 dollars américains. Un tel choix éditorial ne contribue pas là encore à sa large diffusion : 80 % de ses acheteurs sont des collectionneurs et non des bibliothèques87.
Conservé dans une chambre forte, son accès est désormais très restreint voire interdit, même pour les chercheurs88. Selon Christopher de Hamel, il est « plus facile de recontrer le pape ou le président des États-Unis que de toucher Les Très Riches Heures »18. Le manuscrit n’a été exposé au grand public qu’à deux reprises. Une première fois en 1956, puis une seconde fois et pour une quarantaine de feuillets seulement lors d’une exposition temporaire dans la chapelle du château en 200489,90.
Une source d’inspiration contemporaine
Les reproductions des miniatures ont contribué à façonner une image idéale du Moyen Âge dans l’imaginaire collectif. La parution des miniatures dans la revue Verve aurait donné l’idée à Jacques Prévertde la rédaction du scénario du film Les Visiteurs du soir, sorti en . Même le carton d’invitation à l’avant-première, dessiné par René Péron, est directement issu de l’iconographie du manuscrit. C’est le cas aussi pour les décors du film britannique Henry V, réalisé par Laurence Olivier en 1944. Par ailleurs, les miniatures du livre d’heures ont servi de source artistique à un film d’animation comme celui de la Belle au bois dormant de Walt Disney, qui a visité le château de Chantilly en 1935. Les miniatures des frères de Limbourg ont inspiré non seulement le château du film, sorti en 1959, mais aussi ses paysages et la représentation de la nature91. De manière plus ironique, les miniatures ont inspiré une œuvre graphique à l’artiste surréaliste belge Marcel Broodthaers en 1974 intitulée Les très riches heures du duc de Berry (huile et cartes postales sur toile, 53,5 × 58,5 cm) : constituée de deux panneaux, celui de droite reprend des extraits de cartes postales représentant les miniatures du calendrier tandis que le panneau de gauche représente un abécédaire imprimé92. L’artiste fait ainsi allusion à la fois au fétichisme de l’œuvre d’art et à l’imaginaire qui en découle dans la mémoire collective93. Enfin, dans un épisode hors-série de Mr Bean tourné en 1990 intitulé La Bibliothèque, le personnage détruit un manuscrit copie des Très Riches Heures90.
Première publication des miniatures du manuscrit et première étude approfondie sur le sujet
Erwin Panofsky, Les Primitifs flamands, Hazan, coll. « Bibliothèque Hazan », (1re éd. 1953), 880 p. (ISBN2850259039), p. 124-134
(en) Millard Meiss, French Painting in the Time of Jean De Berry : Limbourgs and Their Contemporaries, Londres, Thames and Hudson, , 533 p. (ISBN0-500-23201-6)
Raymond Cazelles et Johannes Rathofer, Les Très Riches Heures du Duc de Berry, Luzern, Faksimile-Verlag, coll. « Références », , 416+435 p. (présentation en ligne [archive])
Première édition facsimilée, limitée à 980 ex., avec un volume de commentaires en anglais, allemand et français
Raymond Cazelles et Johannes Rathofer (préf. Umberto Eco), Les Très Riches Heures du Duc de Berry, Tournai, La Renaissance du Livre, coll. « Références », (1re éd. 1988), 238 p.(ISBN2-8046-0582-5)
Édition abrégée du facsimilé précédent
Patricia Stirnemann et Inès Villela-Petit, Les Très Riches Heures du duc de Berry et l’enluminure en France au début du xve siècle, Paris, Somogy éditions d’art / Musée Condé, , 86 p.(ISBN2850567426)
(en) Rob Dückers et Pieter Roelofs, The Limbourg Brothers : Nijmegen Masters at the French Court 1400-1416, Anvers, Ludion, , 447 p. (ISBN90-5544-596-7)
(en) Inès Villela-Petit et Patricia Stirnemann, The très riches heures of the Duke of Berry, Modène, Franco Cosimo Panini, , 416+61 p. (présentation en ligne [archive])
Édition facsimilée limitée à 550 ex., avec un volume de commentaires actualisés non publié
Laurent Ferri et Hélène Jacquemard, Les Très Riches Heures du duc de Berry : Un livre-cathédrale, Paris/Chantilly, Skira/Domaine de Chantilly, , 80 p. (ISBN978-2370740847)
Articles
Paul Durrieu, « Les Très Riches Heures du duc de Berry conservées à Chantilly, au Musée Condé, et le bréviaire Grimani », Bibliothèque de l’école des chartes, t. 64, , p. 321-328 (lire en ligne [archive])
Patricia Stirnemann, « Combien de copistes et d’artistes ont contribué aux Très Riches Heures du duc de Berry ? », dans Elisabeth Taburet-Delahaye, La création artistique en France autour de 1400, École du Louvre, coll. « Rencontres de l’école du Louvre » (no 16), (ISBN2-904187-19-7), p. 365-380
(en) Jonathan Alexander, « Labeur and Paresse: Ideological Representations of Medieval Peasant Labor », Art Bulletin, no 72, , p. 443-452 (JSTOR3045750, lire en ligne [archive])
(en) Stephen Perkinson, « Likeness, Loyalty and the life of the Court Artist: Portraiture in the Calendar Scenes of the Très Riches Heures », dans Rob Dückers and Peter Roelofs, The Limbourg Brothers : Reflections on the origins and the legacy of three illuminators from Nijmegen, Leyde/Boston, Brill, (ISBN978-90-04-17512-9, lire en ligne [archive]), p. 51-84
(en) Michael Camille, « The Très Riches Heures: An Illuminated Manuscript in the Age of Mechanical Reproduction », Critical Inquiry, vol. 17, no 1, , p. 72-107 (JSTOR1343727)
(en) Margaret M. Manion, « Psalter Illustration in the Très Riches Heures of Jean de Berry », Gesta, vol. 34, no 2, , p. 147-161 (JSTOR767285)
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↑Livre d’heures proprement dit à la BNF, Ms. NA lat.3093, missel au Museo Civico del Arte, Ms. inv. n°7 et le livre de prière aujourd’hui détruit dont il ne subsiste que quatre feuillets de miniatures au musée du Louvre, RF2022-2024, et un autre, au Getty Center, à Los Angeles, ms.67
↑Eberhard König, « Innovation et tradition dans les livres d’heures du duc de Berry », dans Elisabeth Taburet-Delahaye, La création artistique en France autour de 1400, École du Louvre, , p. 40-41.
↑Patricia Stirnemann, « Les ouvriers de Monseigneur », dans Patricia Stirnemann et Inès Villela-Petit, Les Très Riches Heures du duc de Berry et l’enluminure en France au début du xve siècle, op. cit., p. 48
↑Jules Guiffrey, Inventaires de Jean de Berry, t. II, Paris, Ernest Leroux, 1894-1896 (lire en ligne [archive]), p. 280 (n°1164).
↑(it) Luciano Bellosi, « I Limburg precorsi di Van Eyck ? Nuovo osservazioni sui « Mesi » di Chantilly », Prospettiva, no 1, , p. 23-34.
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L’œuvre provient de l’hôpital Santa Maria Nuova et est généralement attribuée à Sandro Botticelli. Néanmoins ceci est contesté par Herbert Horne et Adolfo Venturi qui la considèrent comme une « œuvre d’école » à cause de diverses « simplifications » dans le visage des anges. La datation précoce et les affinités entre la toile La Vierge à l’Enfant et Deux anges et la Madone à la Roseraie vont dans le sens de ces incertitudes.
Elle figure sur l’inventaire des Musées de Florence du 1890 au no 3166.
La Vierge, vêtue de ses traditionnelles couleurs rouge et bleu, est assise sur un trône représentant un séraphin rouge sur le bas du siège; elle est tournée de trois-quarts vers la gauche, et, de sa main gauche, elle tient légèrement par le bas du corps l’Enfant qui tend les bras vers elle. Ce dernier est soutenu par un ange qui le tient de la main droite au bas du dos en regardant Marie. Le second ange qui regarde intensément le spectateur est le « festaiolo », c’est-à-dire qu’il a le rôle de contact avec le public, comme le personnage des représentations sacrées du théâtre de la Renaissance qui expliquait entre autres les scènes aux spectateurs2. Derrière et sur la droite, se trouve le jeune saint Jean-Baptiste avec ses attributs d’ermite dans le désert, peau de chameau et roseau croisé. L’arrière-plan est uni, un ciel dégradé de bleu.
La Vierge est finement coiffée avec les cheveux tenus par une fine coiffe et un voile fin retombant sur le front ; ses vêtements sont ornés de festons et de perles d’or que l’on retrouve dans les détails des auréoles que tous les personnages portent.
Analyse
La composition de l’œuvre témoigne de l’influence de Fra Filippo Lippi comme dans La Lippina (1465 environ), duquel dérivent l’attitude rêveuse et indifférente de la Vierge, la prédominance de la ligne du contour et le drapé vibrant. Néanmoins les formes apparaissent désormais plus douces et souples, et assument des attitudes plus complexes que les œuvres de Lippi. La couleur vive du contraste et le ton bronze dérivent des exemples d’Antonio Pollaiuolo. La physionomie de l’Enfant est désormais typique de Botticelli qui a abandonné les exemples de Verrocchio qu’il avait utilisés dans les œuvres précédentes. La tête de la Vierge, avec le menton en pointe, que l’on retrouve aussi dans La Madone de l’Eucharistie, La Vierge de la loggiaet l’allégorie de la Force, toutes datables des mêmes années.
L’ambiance générale de l’œuvre, représentant des figures sérieuses, pensives, absorbées dans leur propre beauté, est mélancolique et contemplative, accentuée par la délicatesse des tons en clair obscur dans les carnations et dans les vêtements.
↑Alessandro D’Ancona, Origini del teatro italiano: libri tre con due appendici sulla rappresentazione drammatica del contado toscano e sul teatro mantovano nel, vol 1, 1966.
La citation du philosophe grec Protagoras, « L’homme est la mesure de toutes choses », et l’Homme de Vitruve, dessin de Léonard de Vinci (fin XVe), sont les symboles les plus connus de la pensée humaniste.
Giacobbe Giusti, Humanisme
Penseurs les plus traduits et étudiés par les humanistes de la Renaissance, Platon et Aristotesont représentés par Raphael en 1510 au Vatican : respectivement sous les traits de Léonard de Vinci et ceux de Michel-Ange.
Durant l’Antiquité, Grecs et Romains représentent leurs dieux sous des apparences humaines réalistes. Ici, une statue romaine représentant le dieu Apollon (IIe s av. J.-C.).
Giacobbe Giusti, Humanisme
Marcus Tullius Cicero, by Bertel Thorvaldsen as copy from roman original, in Thorvaldsens Museum, Copenhagen
Durant l’Antiquité, Grecs et Romains représentent leurs dieux sous des apparences humaines réalistes.
Ici, une statue romaine représentant le dieu Apollon (IIe s av. J.-C.).
La citation du philosophe grec Protagoras, « L’homme est la mesure de toutes choses », et l’Homme de Vitruve, dessin de Léonard de Vinci (fin XVe), sont les symboles les plus connus de la pensée humaniste.
Giacobbe Giusti, Humanisme
Allégorie de l’humanisme des Lumières, au xviiie siècle, le frontispice de l’Encyclopédie de Diderot et d’Alembert. La Philosophie et la Raison arrachent le voile de la Vérité. À leurs pieds : l’Histoire, l’Astronomie, l’Optique, la Géométrie et différentes sciences.
Gravure de Benoît-Louis Prévostd’après Charles-Nicolas Cochin, 175
Créé à la fin du xviiie siècle et popularisé au début du xixe siècle1, le terme « humanisme » a d’abord et pendant longtemps désigné exclusivement un mouvement culturel prenant naissance au xive siècle en Italie puis se développant dans le reste de l’Europe. Moment de transition du Moyen Âge aux Temps modernes, ce mouvement est tout entier porté par l’esprit de laïcité qui se manifeste alors, point de départ d’une crise de confiance profonde qui affecte l’Église catholique, donc toute la chrétienté.
Les penseurs de la Renaissance se réclamant d’une part des philosophes antiques, n’abjurant pas d’autre part leur foi chrétienne, le mot « humanisme » a fini par désigner un ensemble de valeursconsidérées comme plus ou moins communes à l’ensemble de l’Occident depuis le judéo-christianisme2 et l’Antiquité gréco-romaine et indissociablement liées à l’idéologie du progrès3.
Dans la neuvième édition de leur Dictionnaire (2011), les académiciens définissent ainsi le mot : « doctrine, attitude philosophique, mouvement de pensée qui prend l’Homme pour fin et valeur suprême, qui vise à l’épanouissement de la personne humaine et au respect de sa dignité ».
Le Larousse donne quant à lui cette double définition : « 1) philosophie qui place l’homme et les valeurs humaines au-dessus de toutes les autres valeurs. 2) Mouvement intellectuel qui s’épanouit surtout dans l’Europe du xvie siècle et qui tire ses méthodes et sa philosophie de l’étude des textes antiques ».
Le mot « humanisme » découle des mots homme, humain et humanité qui ont eux-mêmes des origines latines : homo, humanus, humanitas.
À la fin du Moyen Âge, les esprits érudits utilisent la formule studia humanitatis pour désigner l’étude de « ce qui caractérise l’être humain », puis l’expression litterae humaniores(que l’on peut traduire par « enseignements profanes ») pour distinguer ceux-ci des litterae divinae et sacrae (« enseignements divins et sacrés », relatifs aux Saintes Écritures, donc de caractère théologique, tels que répandus par la scolastique).
Lorsque le français supplante le latin en tant que langue usuelle apparaît le terme humanités, pour désigner les collèges dispensant l’enseignement des arts libéraux.
Selon certaines sources, l’adjectif « humaniste » est attesté en 15394mais selon d’autres, il ne l’est qu’à la fin du xvie siècle, pour désigner tout homme « érudit et lettré », attaché aux humanités5.
En 1580, dans ses Essais, Montaigne utilise à trois reprises le mot « inhumain », notamment pour stigmatiser les jeux du cirque dans la Rome impériale et pour dénoncer la barbarie de la déportation des Juifs du Portugal6.
Le mot « humanisme » n’apparaît qu’en 1765, dans le journal Éphémérides du citoyen7 et signifie « amour de l’humanité ». Il reste toutefois inusité pendant plusieurs décennies car il est concurrencé par le mot « philanthropie », lui-même attesté à partir de 1551 et explicitement défini dans L’Encyclopédie de Diderot et d’Alembert. Le Dictionnaire de l’Académie française (4e édition en 1762 ; 5e en 1798) définit d’ailleurs l’humanisme comme le « caractère du philanthrope »5.
En 1846, P.-J. Proudhonconfère au mot « humanisme » un sens philosophique.
En 1808, le théologien allemand Niethammer généralise le terme « humanisme » dans un ouvrage intitulé Der Streit des Philanthropinismus und des Humanismus in der Theorie des Erziehungs-Unterrichts unsrer Zeit(« Le débat entre le philanthropisme et l’humanisme dans la théorie éducative actuelle »), en réaction précisément au concept de philanthropie. Aussitôt, Hegel félicite Niethammer d’avoir opéré la distinction d’avec le terme « philanthropie »8.
Le mot « humanitaire » apparaît dans les années 1830 : il est alors principalement utilisé dans un sens ironique, voire péjoratif9. « Humanitaire veut dire homme croyant à la perfectibilité du genre humain et travaillant de son mieux, pour sa quote-part, au perfectionnement dudit genre humain », ironise le poète Alfred de Musset en 183610 ; Gustave Flaubert se moque de l’« humanitarisme nuageux » de Lamartine en 18419.
En 1846, dans Philosophie de la misère [archive], Proudhon donne pour la première fois au mot « humanisme » un sens philosophique (« doctrine qui prend pour fin la personne humaine ») mais pour critiquer la valeur du terme : « je regrette de le dire, car je sens qu’une telle déclaration me sépare de la partie la plus intelligente du socialisme. Il m’est impossible (…) de souscrire à cette déification de notre espèce, qui n’est au fond, chez les nouveaux athées, qu’un dernier écho des terreurs religieuses ; qui, sous le nom d’humanisme réhabilitant et consacrant le mysticisme, ramène dans la science le préjugé »11. À la même époque, Marx rejoint les positions de Proudhon mais sans utiliser le terme. Comme lui, il conteste l’intérêt de se focaliser sur la nature humaine (ou « essence de l’homme ») et pointe en revanche la nécessité de s’interroger sur sa condition, consécutivement au processus d’industrialisation qui se développe alors. Sous son influence, le terme « humanisme » va donc changer progressivement de sens (lire infra).
A la fin du xixe siècle, les théories de Darwin (ici caricaturé par un journal malveillant) bouleversent le sens du mot « humanisme ».
En 1874, la Revue critique définit le mot ainsi : « théorie philosophique qui rattache les développements historiques de l’humanité à l’humanité elle-même »12 mais, la plupart du temps, l’approche philosophique n’est guère relayée ensuite et le terme est de plus en plus être réduit à l’humanisme de la Renaissance. Ainsi en 1877, le Littréle définit comme « la culture des belles-lettres, des humanités » tandis que, la même année, la Revue des deux mondes lui donne le sens de « mouvement intellectuel européen des xve et xvie siècles qui préconisait un retour aux sources antiques par opposition à la scolastique [la tradition universitaire médiévale, méprisée pour son dogmatisme] ». La plupart des ouvrages de vulgarisation ne retiennent aujourd’hui que cette approche du terme.
À la fin du xixe siècle, le développement de la pressecontribue à ce que le concept d’humanité n’interpelle plus seulement les intellectuels mais un nombre croissant d’individus. Les journaux rendant compte aussi bien des théories darwiniennes que d’événements survenant dans le monde entier, le sens du mot « humanisme » se trouve progressivement mais profondément infléchi dans une visée historiciste et matérialiste. En 1882, le supplément du Littré donne au mot une double acception : « 1) la culture des humanités ; 2) une théorie philosophique qui rattache les développements historiques de l’humanité à l’humanité elle-même ».
Au début du xxe siècle, le mot « humanité » entre dans le langage courant (en 1904, Jean Jaurèsfonde le journal L’Humanité), le mot « humanisme » se répand également, associé non plus à une théorie débattue par quelques philosophes mais à un sentiment diffus.
En 1939, dans la lignée du saint-simonisme, l’ingénieur français Jean Coutrot invente le terme « transhumanisme » pour promouvoir une économie rationnelle de l’économie14. Ce mot sera brièvement repris à la fin des années 1950 et son usage ne se généralisera qu’à la fin du xxe siècle.
Le terme « antihumanisme » apparaît en 1936 dans un ouvrage du philosophe Jacques Maritainpour désigner les penseurs qui, durant la seconde moitié du xixe siècle et au début du xxe, ont radicalement remis en question la validité du concept d’humanisme (principalement Marx, Nietzsche et Freud)15. Et quand, peu après, les philosophes Sartre et Heideggerdébattent eux aussi de la pertinence du concept, un grand nombre d’intellectuels – aussi bien chrétiensqu’athées – se réclament de l’humanisme (lire infra), ce qui contribue à rendre le concept assez flou.
En 1957, Julian Huxley, biologiste et théoricien de l’eugénismeanglais, forge l’expression « humanisme évolutionnaire » et reprend le mot « transhumanisme ». Il définit le « transhumain » comme un « homme qui reste un homme, mais qui se transcende lui-même en déployant de nouvelles possibilités pour sa nature humaine »16. Le concept du « transhumanisme » sera repris dans les années 1980 par plusieurs techniciens de la Silicon Valley pour prôner un nouveau type d’humanité, où la technique serait utilisée non seulement pour remédier aux maladies (médecine) mais pour doter l’homme de capacités dont la nature ne l’a pas pourvues (concept d’ homme augmenté). Par son caractère technophile, le transhumanisme est une philosophie ouvertement optimiste.
En 1980, l’écrivain suisse Freddy Klopfenstein invente le mot « humanitude »17. En 1987, le généticien Albert Jacquard le reprend et le définit comme étant « les cadeaux que les hommes se sont faits les uns aux autres depuis qu’ils ont conscience d’être, et qu’ils peuvent se faire encore en un enrichissement sans limites »18.
En 1999, Francis Fukuyama et Peter Sloterdijk développent les concepts « post-humanité » et « post-humanisme » (qui, comme « transhumanisme », renvoie à l’idée que, du fait de la prolifération des « technologies », les concepts d’humanisme et d’homme ne sont plus pertinents), mais cette fois pour s’en inquiéter19,20,21.
Au xxie siècle, les néologismes« transhumanisme » et « post-humanisme » restent peu usités dans le langage courant. En revanche, bien que peu d’intellectuels s’en réclament, le concept d’humanisme donne lieu à de nombreuses publications (lire infra), le succès du mot croît en proportion avec celui des actions d’aide humanitaire. Il inonde la sphère politique, au point d’être revendiqué dans des milieux idéologiquement opposés, aussi bien par des grands chefs d’entreprises s’affichant chrétiens22que par des opposants au système capitaliste se réclamant de l’athéisme23.
À tel point que le terme est aujourd’hui un mot fourre-tout : on trouve ainsi des auteurs pour avancer que Sylvester Stallone(acteur hollywoodien et adepte du body building) est un humaniste24. Le philosophe Philippe Lacoue-Labarthe va même jusqu’à argumenter que « le nazisme est un humanisme »25. Dans ce contexte de dilution de sens du mot, et dans le but de réactualiser celui-ci, quelques intellectuels tentent d’imposer des néologismes. En 2001, Michel Serres utilise le mot « hominescence »26, « pour désigner ce que vit l’humanité depuis la seconde moitié du xxe siècle : un changement majeur dans notre rapport au temps et à la mort »27. Et en 2016, le prospectiviste français Joël de Rosnay prédit l’émergence d’un hyperhumanisme, « bien préférable selon lui au cauchemar transhumaniste »28.
Les origines de l’humanisme
Considérés comme les premiers propagateurs de la pensée humaniste, les philosophes de la Renaissance (Dante, Pétrarque… puis Marsile Ficin, Pic de la Mirandole et plus tard Montaigne) n’en sont pas pour autant les initiateurs car ils se sont systématiquement référé aux penseurs grecs et romains et n’ont eu de cesse d’en faire l’éloge. Et bien qu’ayant ostensiblement tourné le dos à la pensée scolastiqueérigée par l’Église, ils n’ont jamais renié leur foi chrétienne. C’est pourquoi l’on peut considérer que « la matrice de l’humanisme occidental est double, comme s'(il) avait été enfanté simultanément dans deux ventres » : il y a d’une part l’Antiquité classique, d’autre part le judéo-christianisme29.
Symbole du judaïsme, l’étoile de David, est composée de deux triangles superposés, l’un pointé vers le haut, l’autre vers le bas, évoquant respectivement l’aspiration de l’homme vers Dieu et l’amour de Dieu pour l’homme.
La religion juive trouve son origine au viiie siècle av. J.-C. avec le début de la rédaction du Livre de la Genèse (qui se poursuit jusqu’au iiesiècle av. J.-C.), qui est un récit des originesmythique commençant par celui de la création du monde par Dieu, et par un autre, qui relate la création du premier couple humain, Adam et Ève. Ce récit confère à l’être humain un rôle explicitement supérieur par rapport aux autres espèces, principalement du fait des capacités de sa conscience et du degré de complexité de son langage. L’épisode de l’arbre de la connaissance du bien et du malattribue aux humains une prérogative, la réflexion éthique, et confère à celle-ci une explication précise : l’homme et la femme vivaient dans le jardin d’Éden et Dieu leur avait formellement défendu de manger les fruits de cet arbre ; c’est parce qu’ils lui ont désobéi qu’est née l’humanité et que celle-ci s’est retrouvée de facto empêtrée dans un ensemble de contradictions, qu’elle a ressentie alors comme une imperfection fondamentale : le péché. Selon le judaïsme, donc, la conscience (d’être humain) résulte fondamentalement d’une transgression de la loi divine : la Chute.
Abdennour Bidar fait remarquer qu’il est « apparemment contradictoire » de présenter le monothéismecomme matrice de l’humanisme : « A priori, le principe même du monothéisme semble incompatible avec l’exaltation de l’homme qui fonde tout humanisme ; s’il y a un seul Dieu, il concentre nécessairement en lui-même toutes les qualités, toutes les perfections… et il ne reste pour l’homme que les miettes d’être, des résidus de capacités sans commune mesure avec leur concentration et leur intensité dans le Dieu. Trop de grandeur accordée à Dieu, toute la puissance et la sagesse concentrées en (lui), n’écrasent-ils pas radicalement et définitivement l’être humain ? »30.
Le philosophe Shmuel Triganosouligne à son tour la contradiction : « Comment une croyance focalisée sur un être suprême et unique pourrait-elle s’ouvrir à la reconnaissance d’un autre être, en l’occurrence l’homme ? C’est en posant cette question, en apparence insoluble (…) que l’on a dénié, le plus souvent, toute capacité au monothéisme d’être aussi un humanisme, d’engendrer un monde fait pour l’homme ». Trigano répond alors lui-même à cette question, en se livrant à une analyse du mythebiblique de la création, tel que formulé dans le Livre de la Genèse : « Ce que l’on comprend dans le récit de la création en six jours, (c’est que) le Dieu créateur s’arrête de créer le sixième jour, le jour précisément où il crée l’homme, comme si s’ouvraient alors le temps et l’espace de l’homme, d’où la divinité se serait retirée. (…) Que peut alors signifier cette création qui s’arrête au moment où l’homme est créé ? Que l’homme est l’apothéose de cette création, certes (…) mais aussi que le monde reste inachevé dès le moment où l’homme y apparaît (…). Il y a (donc) l’idée que la création est désormais autant dans les mains de l’homme que (dans celles) du dieu créateur »31.
S’appuyant sur les travaux de C. G. Jung (Réponse à Job(en), 195232), Bidar estime que le texte qui lui paraît le plus significatif de l’orientation humaniste du monothéisme juif est le Livre de Job, au cours duquel un humain (Job) tient tête à Dieu lors d’un long dialogue avec lui et parvient, ce faisant, à ce que Dieu lui-même se métamorphose en devenant plus aimant à l’égard de l’homme »33.
Le christianisme
Bidar avance l’idée qu’avec le christianisme, Dieu lui-même devient « humaniste » : « le Dieu s’humanise en un double sens : il devient homme en s’incarnant, humain en se sacrifiant, comme une mère le fera avec son enfant (…). Dans quelle autre religion le dieu se sacrifie-t-il pour l’homme ? »34.
Mais que disent les sources elles-mêmes ? À ses disciples qui lui demandent de formuler clairement son message, Jésus de Nazarethrépond : « Tu aimeras le Seigneur, ton Dieu, de tout ton cœur, de toute ton âme, et de toute ta pensée. C’est le premier et le plus grand commandement. Et voici le second, qui lui est semblable : tu aimeras ton prochain comme toi-même »35. Mais quand, peu avant, il leur recommande de « rendre à Dieu ce qui est à Dieu et à César ce qui est à César »36, il les invite au contraire à séparer le registre divin et le registre des humains. De même, quand Paul de Tarse, fondateur historique du christianisme, exhorte : « ne vous conformez pas au siècle présent »37, il entend que le chrétien doit s’immerger dans le monde sans jamais en partager les valeurs. Dès les premiers siècles, les Pères de l’Église combattront ceux qui remettront en cause, par delà « le mystère de l’incarnation », ce que celui-ci recouvre, le caractère indissociable des commandements : aimer Dieu, aimer son prochain, s’aimer soi-même.
Les rapports entre christianisme et humanisme sont complexes du fait de la diversité des interprétations de la formule « aimer son prochain ». De la Renaissance au xxe siècle, bon nombre de penseurs ont été classés « humanistes » et « chrétiens »38, ce qui pose la question : « le christianisme est-il un humanisme ? »39. À cette question, ceux qui – peu ou prou – assimilent « le prochain » (personne concrète) et « les humains » (entité abstraite) ont tendance à répondre par l’affirmative40 ; ceux qui, au contraire, tiennent à établir une différence répondent négativement41, allant jusqu’à reprocher à leurs adversaires de transformer le christianisme « en un lénifiant humanisme philanthropique », « de la soupe compassionnelle », du « bon sentiment dégoulinant d’empathie »42. En 1919, le philosophe Max Scheler qualifiait quant à lui l’« humanisme chrétien » d’humanitarisme : « L’humanitarisme remplace, « le prochain » et « l’individu » (qui seuls expriment vraiment la personnalité profonde de l’homme) par « l’humanité » (…). Il est significatif que la langue chrétienne ignore l’amour de l’humanité. Sa notion fondamentale est l’amour du prochain. L’humanitarisme moderne ne vise directement ni la personne ni certains actes spirituels déterminés (…), ni même cet être visible qu’est « le prochain » ; il ne vise que la somme des individus humains »43.
Le théologien protestant Jacques Ellul interprète ce clivage entre pro- et anti-humanistes en milieu chrétien comme la conséquence d’un événement survenu au début du ive siècle. Jusqu’alors, l’Empire romain faisait preuve de tolérance à l’égard de toutes les positions religieuses, sauf précisément envers les chrétiens, qu’il persécutait (du fait que, fidèles à l’enseignement du Christ, ceux-ci ne voulaient pas prêter allégeance à l’empereur). Mais en 313, l’empereur Constantins’est converti au christianisme (édit de Milan) pour affirmer son autorité dans le domaine religieux (césaropapisme) : dès lors qu’il a demandé aux évêques de devenir ses fonctionnaires et que ceux-ci y ont consenti, le christianisme est devenu une religion d’État et s’est retrouvé subverti par lui44,45. L’humanisme de la Renaissance ne s’oppose donc pas au christianisme mais il résulte de la politisation de celui-ci ; laquelle provoque à son tour la division des chrétiens entre les « pro-humanistes », qui acceptent l’immixtion de l’Église dans les affaires temporelles (ou simplement le fait qu’elle émette des avis à leur sujet) et les « anti-humanistes », qui refusent cette intrication.
L’Antiquité grecque
S’appuyant sur les travaux de Marcel Détienne et Jean-Pierre Vernant46, A. Bidar, estime qu’Homère constitue au viiie siècle av. J.-C. la première grande figure de l’humanisme antique, son personnage d’Ulysse« symbolisant le mieux l’intelligence en mouvement, l’infinie capacité d’adaptation »47. Mais, comme la plupart des commentateurs, il situe au ve siècle av. J.-C. l’acte de naissance de l’humanisme grec, citant les trois grands auteurs tragiques de l’époque, Eschyle, Sophocle et Euripide, qui « célèbrent la grandeur de l’homme dans l’impuissance comme dans la puissance »48.
Une idée répandue tend à faire du sophiste Protagoras le principal initiateur de l’humanisme grec, en raison d’une de ses citations désormais célèbre : « L’homme est la mesure de toute chose ». L’historien de l’art Thomas Golsenne relativise toutefois la portée de celle-ci, faisant valoir d’une part qu’on ne la connaît que par Platon ; d’autre part que, contrairement à ce que bon nombre de manuels scolaires laissent entendre, « les têtes pensantes de la Renaissance n’y font pas référence »49.
Bidar s’attarde surtout sur Socrate, dont la pensée est centrée sur l’être humain, à la différence de celle des penseurs présocratiques qui, eux, se focalisaient sur la nature. N’ayant laissé aucune trace écrite, Socrate est essentiellement connu par Platon, son principal disciple. Il prend pour sienne la sentence écrite sur le fronton du temple d’Apollon à Delphes « Connais-toi toi-même » ; formule se référant non pas à l’introspection mais avec la place de l’homme dans la cité et dans la nature. Il exerce une influence majeure du fait qu’il use d’une méthode basée sur l’argumentation : il pratique la maïeutique (ou « art d’accoucher ») en interrogeant ses interlocuteurs de sorte qu’au fil du dialogue ceux-ci prennent conscience des motivations de leurs propos, quitte entre-temps à les faire changer d’avis. De la sorte, il démontre la puissance de la raison(logos), sans avoir à recourir aux artifices de la rhétorique à l’inverse des sophistes.
Penseurs les plus traduits et étudiés par les humanistes de la Renaissance, Platon et Aristotesont représentés par Raphael en 1510 au Vatican : respectivement sous les traits de Léonard de Vinciet ceux de Michel-Ange.
Dans sa théorie des Idées, Platon affirme que les concepts et notionsexistent réellement, sont immuables et universels et constituent les « modèles » des choses, qui sont perçues par les sens. La philosophie dépendant en tout premier lieu de présupposés psychologiques50, en postulant que les idées « existent réellement », Platon projette son propre intellect dans un univers transcendant : son idéalisme revient à considérer qu’en concevant les idées, les humains peuvent ne pas se laisser impressionner par le monde sensible et, en revanche, être à même de le comprendre. Ce qu’il entend par « idées » préfigure ce que les modernes entendront plus tard par « raison »51. Au xxe siècle, Martin Heideggeravancera qu’en considérant l’entendement comme « le lieu de la vérité », Platon est un humaniste avant la lettre52.
Élève de Platon, Aristote rompt avec son enseignement. Alors que son maître ne considère le monde sensible qu’avec une certaine condescendance, lui manifeste une soif de tout apprendre, d’où son éclectisme : il aborde en effet presque tous les domaines de connaissance de son temps : biologie, physique, métaphysique, logique, poétique, politique, rhétorique et même, de façon ponctuelle l’économie.
L’opposition entre l’idéalisme de Platon et le réalisme d’Aristote s’accentue à la charnière des ive et iiie siècles av. J.-C. avec l’apparition de deux mouvements de pensée qui marqueront – eux aussi – les humanistes de la Renaissance et que l’on appellera plus tard l’épicurisme et le stoïcisme :
« Il semble qu’après Platon, et dès Arisote, la philosophie a eu du mal à continuer à parler des capacités métaphysiques de l’homme. (…) L’humanisme antique serait passé d’une enfance métaphysique et de ses rêves d’immortalité à une maturité stoïcienne et épicurienne, où l’on ne tente plus vainement de penser (…) au delà de la mort mais où on s’efforce bien plus modestement de vivre cette vie de façon plus accomplie. »
— Abdennour Bidar, Histoire de l’humanisme en Occident, Armand Colin, 2014, p.125.
Tous comme les penseurs grecs, leurs successeurs romains dégagent une vision de l’homme à deux volets, l’une idéaliste, axée sur la valorisation des vertus, l’autre réaliste, qui souligne les caractères communs, voire triviaux, des individus. Comme en Grèce, le théâtre autant que la philosophie expriment cette dualité. Mais alors que la comédie grecque antique est moins connue que la tragédie, les auteurs comiques romains vont marquer sensiblement les penseurs de la fin de Renaissance. Plaute (à la charnière du iiie et du iie siècle av. J.-C.) et surtout Terencey excellent. Le second, à qui l’on doit la citation « rien de ce qui est humain ne m’est étranger », influencera profondément la comédie humaniste au xvie siècle.
Actif au ier siècle av. J.-C., Cicéronsera admiré par les humanistes de la Renaissance, non seulement car il incarne à lui seul un grand nombre de vertus (dignité, sens de la chose publique et de l’intérêt général) mais aussi parce que, grâce à sa ténacité et ses talents d’élocution, il les concrétise dans la vie politique. Bien que n’appartenant pas à la noblesse et alors que rien ne le destinait par conséquent à la vie politique, il est parvenu à exercer la magistrature suprême durant cinq ans tout en se montrant réceptif aux grands philosophes grecs. On lui doit d’avoir forgé le terme humanitas et de l’avoir associé à l’idée de culture53.
De même, un certain nombre de poètes de cette époque ont valeur de modèles, notamment Virgile et Ovide : le premier, dans L’Énéide, raconte comment, à partir de presque rien, Rome s’est élevée jusqu’à devenir un empire; le second, dans les Métamorphosesinvite le lecteur à s’inscrire dans l’Histoire, depuis la création du monde jusqu’à sa propre époque.
Les humanistes de la Renaissance seront marqués par l’aptitude des penseurs romains à approcher l’histoire non seulement par le biais de la fiction mais également de façon détachée, comme Tite-Live, auteur de la monumentale Histoire romaine, et plus tard Tacite. Ils prennent également pour modèles les philosophes s’attachant à développer leur réflexion sur l’homme lui-même et sa façon d’appréhender le monde et lui-même. D’une part les stoïciens des ier et iie siècles, Sénèque, Épictèteou Marc Aurèle mais aussi les héritiers de Platon : Plutarque, au ier siècle, et surtout le néo-platonicienPlotin, au iiie.
Dernier legs de l’antiquité romaine à l’Occident médiéval et moderne, et non le moindre : le sens de l’exégèse. Au début du vie siècle, alors que la chrétienté se structure, Boèce traduit Platon et Aristote en latin avec la volonté affirmée de les réactualiser. Oubliés près sa mort, ses textes seront redécouverts à la fin du viiie siècle.
Le Moyen Âge
Plus de mille ans séparent l’Antiquité de sa « renaissance », plus précisément le moment où le christianisme devient officiellement la religion de l’Orient et de l’Occident, au iiie siècle, et celui où les premiers « intellectuels » expriment l’intention de se dégager explicitement de son emprise (Discours de la dignité de l’homme, Pic de la Mirandole, 1486).
L’historienne Laure Verdon invite toutefois à rejeter l’idée reçue selon laquelle toute la phase intermédiaire, le Moyen Âge, serait une période « obscure » :
« Le terme « humanisme » renvoie, dans la pensée commune, à une culture, celle des hommes du xvie siècle, culture qui s’opposerait dans ses fondements mêmes et son esprit, à la culture du Moyen-Âge. C’est là l’un des éléments qui ont contribué à forger l’image sombre de la période médiévale. Cette définition est à la fois restrictive et manichéenne. L’humanisme est autant qu’une culture, une pratique politique et une façon de concevoir le gouvernement qui privilégie le rôle des conseillers lettrés auprès du prince et s’oppose au mode ancien du pouvoir. En ce sens, le premier humanisme politique est pleinement médiéval, conséquence logique de l’évolution des structures de l’Étatau xvie siècle54. »
De surcroît, durant toute cette période, de nombreux docteurs et hommes d’église se montrent extrêmement ouverts aux sciences et à la philosophie. Tels par exemple Gerbert d’Aurillac (élu pape autour de l’an mille mais qui était également un mathématicien et un érudit, connaissant Virgile, Cicéronet Boèce ainsi que les traductions latines d’Aristote) et Albert le Grand(actif au xiiie siècle, frère dominicain, philosophe et théologien mais aussi naturaliste et chimiste).
Saint Augustin, imaginé vers 1480 par le peintre florentin Sandro Botticelli.
On mentionnera ici deux personnalités parmi les plus influentes, ayant vécu l’une au tout début de cette longue période, à la charnière du ive et ve siècles, donc peu avant la chute de l’Empire romain : Augustin d’Hippone ; l’autre tout à la fin : Thomas d’Aquin, disciple d’Albert Le Grand, au xiiie siècle.
S’opposant au moine Pélage, qui considère que tout chrétien peut atteindre la sainteté par ses propres forces et son libre arbitre, Augustin(354-430) valorise le rôle de la grâce divine. Toutefois, comme Ambroise de Milan, il intègre au christianisme une partie de l’héritage gréco-romain, le néoplatonismeainsi qu’une part substantielle de la tradition de la République romaine. La postérité conserve de lui l’image d’un homme érudit55,56 et s’adressant à toutes les époques, aussi bien à Dante, Pétrarque, Thomas d’Aquin, Luther, Pascal et Kierkegaard… qu’à Heidegger, Arendt, Joyce, Camus, Derrida ou Lyotard (qui, tous, le commenteront)57, cette audience étant due en grande partie au succès de ses Confessions, une longue et rigoureuse autobiographie, l’un des premiers ouvrages du genre.
Durant les huit siècles qui séparent Augustin de Thomas, l’Église se métamorphose au point que l’on ne peut comprendre les débats d’idées qui les jalonnent qu’à la lumière de l’évolution du contexte historique. Après la fin de l’Empire romain, en 476, l’Église s’avère la seule puissance capable d’affronter la « barbarie » et de structurer l’Europe. À la fin du vie siècle, le pape Grégoire le Grand administre les propriétés foncières de l’Église, celle-ci exerce un véritable pouvoir temporel, la quasi totalité des souverains lui prêtant allégeance. L’Europe tout entière est évangélisée, l’unité religieuse est atteinte au viie siècle mais prend fin au xie siècle avec la séparation de l’Église d’Occident et celle d’Orient. La terre constituant la principale source de revenu, l’Église d’Occident, dirigée depuis Rome, devient extrêmement riche, son pouvoir est marqué par la construction d’un grand nombre d’édifices (églises puis cathédrales…) et le financement de croisades visant à libérer Jérusalem de l’emprise des Turcs. Stimulée au xie siècle par la réforme grégorienneet l’émergence d’une classe d’intellectuels manifestant un certain intérêt pour la culture antique (notamment l’École de Chartres), la chrétienté vit, au siècle suivant, une profonde mutation de ses structures culturelles marquée par une intense activité de traduction des auteurs arabes et grecs (par l’intermédiaire des traducteurs arabes). Se développe alors la scolastique, un courant de pensée visant peu à peu à concilier la philosophie grecque avec la théologie chrétienne.
Au début du xiiie siècle, l’Église est une vaste organisation supranationale, influençant sensiblement les élections impériales et fixant le code de conduite de tous les Européens (sauf les Juifs), allant jusqu’à condamner pour hérésie ceux qui contestent son autorité et instituant l’inquisition pour conduire les plus radicaux au supplice et à la mort.
Également pour assurer son impact sur les consciences, et alors que sont traduits de l’arabe les commentaires d’Aristote par Averroès, l’Église crée l’Université de Paris. Sous l’impulsion d’Albert le Grand, celle-ci devient dans les années 1240 un véritable foyer de la pensée d’Aristote. Les débats portent sur une question sensible : « comment articuler la raison et la foi ? ». Suivant la ligne d’Averroès, Siger de Brabant prône pour la suprématie totale de la première sur la seconde. À l’opposé, Thomas d’Aquin (1224-1274) opère une synthèse magistrale entre aristotélisme et augustinisme, entre sciences, philosophie et théologie (Somme contre les Gentils, vers 1260). En le canonisant, cinquante ans après sa mort, l’Église lèvera le tabou sur Aristote, laissant alors le champ libre à ceux qui, pleinement conscients de participer à l’émergence d’un monde nouveau, guidé par la raison, seront rapidement et unanimement désignés d’humanistes. Certains considèrent donc que Thomas d’Aquin en est le précurseur direct58,59 :
« C’est parce qu’il est par excellence un philosophe de l’existence que Saint Thomas est un penseur incomparablement humain et le philosophe par excellence de l’humanisme chrétien. L’humain est en effet caché dans l’existence. A mesure qu’il se dégageait des influence platonicienne, le Moyen-âge chrétien a de mieux en mieux compris qu’un homme n’est pas une idée, c’est une personne (…). L’homme est au cœur de l’existence. »
— Jacques Maritain, L’humanisme de Saint-Thomas, 1941
Maritain oppose toutefois radicalement le mouvement de la scolastique, qu’il appelle humanisme médiéval, et l’humanisme de la Renaissance, qu’il qualifie de classique, en considérant que le premier de théocentrique et le second d’anthropocentrique. Et il avance que cette inversion a des conséquences tragiques, « la personne humaine, rompant ses attaches de créature dépendant essentiellement de son créateur, est livrée à ses propres caprices et aux forces inférieures »60,61.
L’humanisme en tant que phénomène historique s’étend sur trois siècles. Appelée « Renaissance », cette période est celle de profonds bouleversements politiques et culturels. Alors que les humanistes de la première génération sont essentiellement des lettrés traduisant les textes de l’Antiquité gréco-romaine, ceux des générations suivantes sont « modernes », qui s’intéressent aux questions profanes et d’actualité (quand l’Europe découvre et explore les autres continents ou que l’irruption de la Réforme divise les populations) et qui se servent de l’invention de l’imprimerie pour diffuser leurs idées.
Alors qu’une crise de légitimité affecte l’Église, chassée de la Terre sainte par les Ottomans, l’Europe occidentale vit de grands bouleversements économiques et politiques. À la suite de la forte poussée démographique survenue au siècle précédent ainsi qu’à plusieurs années de mauvaises récoltes puis une épidémie de pestequi élimine un tiers de sa population, l’économie est restructurée. La société s’urbanise (plusieurs villes comptent désormais plus de 40000 habitants) et les premières compagnies internationales éclosent, appliquant de nouvelles techniques financières. Les banquiers lombards, qui – dès les années 1250 – avaient institué la pratique du prêt bancaire contre intérêt, implantent des bureaux en Champagne, en Lorraine, en Rhénanie et en Flandre. Leurs débiteurs sont des rois, des seigneurs et des commerçants soucieux de mener à bien différents projets. Ce passage d’une économie féodale au commerce de l’argent (capitalisme) marque la fin du Moyen Âge et l’éclosion des Étatsmodernes62.
Une nouvelle classe sociale apparaît, celle qui pilote la nouvelle économie et en tire directement profit : la bourgeoisie. À la fin du siècle, elle bénéficiera du fait que l’Église est ébranlée par un schismepour imposer ses propres valeurs. Alors qu’auparavant le monde d’ici-bas était associé à l’image de la Chute, il va peu à peu être étudié de façon objective et distanciée.
Les premiers foyers d’humanisme se manifestent dans les cités d’Italie, notamment en Toscane et tout spécialement la ville de Florence. Les hommes de lettres s’expriment non plus en latin mais dans les langues vernaculaires, » pour exprimer des sentiments spécifiquement humains (qui ne se réfèrent aucunement à une transcendance divine). Le premier à utiliser le toscan comme langue littéraire est Dante Alighieri. Composée tout au début du siècle, sa Divine Comédie raconte un voyage à travers les trois règnes supraterrestres imaginés par la chrétienté (enfer, purgatoire et paradis). Tout en recouvrant différentes caractéristiques de la littérature médiévale, l’œuvre innove par le fait qu’elle tend vers « une représentation dramatique de la réalité »63. Deux décennies plus tard, Dante est imité par deux autres poètes. Pétrarque, dont le Canzoniere (chansonnier) composé à partir de 1336 est essentiellement consacré à l’amour courtois et qui aura par la suite un vaste retentissement. Et son ami Boccace, auteur du Décaméron, rédigé entre 1349 et 1353. Tous deux touchent à de nombreux genres (conte, histoire, philosophie, biographie, géographie…).
De même, à la fin du siècle en Angleterre, Geoffrey Chaucer écrit-il dans sa langue les Contes de Canterbury. L’histoire est celle d’un groupe de pèlerins cheminant vers Canterbury pour visiter le sanctuaire de Thomas Becket. Chacun d’eux est typé, représentant un échantillon de la société anglaise.
L’humanisme s’exprime également à travers les arts visuels. Succédant aux « artisans » (anonymes au service exclusif de l’Église), les « artistes » acquièrent une certaine renommée en mettant au point des techniques permettant de conférer à leurs œuvres un certain degré de réalisme. Les premiers d’entre eux sont le siennois Duccio et surtout le florentin Giotto64, dont l’esthétique rompt radicalement avec les traditions, que ce soit celle de l’art byzantin ou celle du gothique international, marquée en effet par une volonté très prononcé d’exprimer la tridimensionnalité de l’existence. Derrière les personnages, placés au premier plan, Giotto dresse des décors naturels (arbres et enrochements) qui tranchent avec le traditionnel fond doré. Il utilise la technique du modelé pour traiter le drapé des vêtements tandis que les visages (y compris ceux des personnages secondaires) sont particulièrement expressifs. Du fait de leur réalisme, ces œuvres exercent immédiatement une influence considérable. À noter aussi, peint à Padoue vers 1306, le cycle des vices et vertus (envie, infidélité, vanité… tempérance, prudence, justice…).
Élève de Duccio, Ambrogio Lorenzetti est l’auteur des fresques des Effets du bon et du mauvais gouvernement. Réalisées à partir de 1338 sur trois murs d’une salle du Palazzo Pubblico de Sienne, elles sont connues comme étant à la fois l’une des premières peintures de paysage (certains bâtiments de Sienne sont reconnaissables) et comme allégorie politique65. Et dans l’Annonciation qu’il peint en 1344, il innove en utilisant la méthode de la perspective de façon certes partielle (tracé du dallage figurant sous les pieds des deux personnages) mais rigoureuse (par l’emploi du point de fuite).
Une pensée inscrite dans la cité
À Florence, les initiatives de Pétrarque et Boccace sont encouragées en haut lieu. Notamment par Coluccio Salutati, chancelier de la République de 1375 à 1406, connu pour ses qualités d’orateur et lui-même écrivain, qui défend les studia humanitatis. Ayant créé la première chaire d’enseignement du grec à Florence, il invite le savant byzantin Manuel Chrysoloras de 1397 à 1400. Les occidentaux parlant ou lisant peu le grec, de nombreuses œuvres grecques antiques étant par ailleurs indisponibles dans la traduction latine, un auteur tel qu’Aristoten’était accessible aux intellectuels du xiiie siècle qu’au travers de traductions en arabe. « Éclairé par une foi inébranlable dans la capacité des hommes à construire rationnellement un bonheur collectif, son attachement à la culture ancienne, à la tradition chrétienne, au droit romain, au patrimoine littéraire florentin, dévoile une ardeur de transmettre, une volonté inquiète de conserver l’intégrité d’un héritage. Inlassable défenseur d’une haute conception de la culture, Salutati la juge (…) indissociable d’une certaine vision de la république »66.
Critique de l’Église
À la fin du siècle s’esquisse un souci de repenser le rapport à la théologie et à l’Église elle-même. Ainsi, de 1376 à sa mort, en 1384, le théologien anglais John Wyclifprêche en faveur d’une réforme générale et préconise la suprématie de l’autorité de la sainteté face à l’autorité de fait. Rejetant l’autorité spirituelle de l’Église institutionnelle, il ne reconnaît pour seule source de la Révélation que la Sainte Écriture (De veritate sacrae Scripturae, 1378).
xve siècle
Dans les mentalités, la référence aux Écritures reste centrale et jamais remise en question. Toutefois la perte d’autorité de la papauté sur un certain nombre de souverains se confirme et s’accentue, accélérée par une crise interne (de 1409 à 1416, la chrétienté ne compte plus seulement deux papes mais trois). Du début du siècle – quand elle envoie sur le bûcher Jean Hus, qui dénonçait le commerce des indulgences – jusqu’à son terme – quand elle fait cette fois brûler Savonarole, qui fustigeait la vie dissolue du pape – l’Église se campe dans une posture dogmatique au sein d’une société qui, elle, est en pleine mutation, du fait de l’éclosion des États-nations. Entre-temps, la prise de Constantinople par les Ottomans(1453) la contraint d’admettre que son influence ne dépasse plus l’Europe.
En revanche se confirme la montée en puissance de la grande bourgeoisie commerçante. Élevée dans les studia humanitatis, elle manifeste un intérêt croissant pour les choses matérielles, que ce soit celles relatives à la vie privée ou celles concernant la gouvernance de la cité ou le négoce avec l’étranger. Dès les années 1420, dans les régions d’Europe les plus avancées au plan économique – la Toscane et la Flandre67 – l’art pictural évolue dans le sens d’un réalisme qui témoigne de l’évolution des élites vers le pragmatisme et le volontarisme, ceci jusque par delà les frontières : la découverte du monde par voie marine s’amorce en 1418 avec la côte occidentale africaine et se poursuit en 1492 avec l’Amérique. Cet esprit de conquête ne se limite pas aux territoires, il vise également les consciences : peu après 1450, Gutenberg met au point la technique de l’imprimerie, qui permettra par la suite de réaliser le rêve des humanistes : diffuser largement les connaissances.
L’historien de l’artAndré Chastelestime que, contrairement à une idée reçue, l’étude des textes anciens par les érudits de l’époque ne traduit pas « un refroidissement progressif du sentiment religieux » mais qu’il existe « entre les notions de profane et de sacré un va-et-vient parfois déconcertant »68. S’appuyant sur les travaux d’Erwin Panofsky69, il insiste sur le fait que cette étude des textes anciens comme celle des ruines antiques à Rome par l’architecte Brunelleschi et le sculpteur Donatello naissent du processus d’autonomisation de la raison par rapport au sentiment religieux et qu’en retour ces recherches contribuent à accroître ce processus. Et il souligne que ce que l’on appelle « humanisme » ne se traduit pas seulement par un renouveau de la pensée philosophique mais tout autant par l’émergence, durant les années 1420, d’une esthétique nouvelle, caractérisée par une activation de la raison et de l’observation visuelle. Ceci de deux façons distinctes : à Florence, Brunelleschi, Donatello et le peintre Masaccio mettent au point le procédé de la perspective, basé sur l’invention du point de fuite et par lequel ils parviennent à rendre leurs représentations de plus en plus cohérentes au plan visuel ; dans les Flandres, Robert Campin, exprime cette volonté de réalisme par un souci de restitution du moindre détail, renforcé chez Jan Van Eyck par l’utilisation d’un médium nouveau, la peinture à l’huile. Chez ces deux peintres, les représentations à contenu religieux sont de surcroît peuplées de personnages, décors et objets contemporains.
Une éthique nouvelle
Dans les Flandres comme en Italie, ce que l’on appelle « humanisme » s’apparente à une véritable éthiquedes nouvelles élites dirigeantes. À Bruges, le portrait du marchand italien Arnolfini et de son épouse par Van Eyck (peint en 1434) symbolise le processus de sécularisation de la société qui s’amorce alors, les nouvelles formes de la vie publiques’appuyant sur la mise en scène de la vie privée de la riche bourgeoisie. À Florence, le De familia de Leon Battista Alberti (publié vers 1435) traite de l’éducation des enfants, de l’amitié, de l’amour et du mariage, de l’administration des richesses et du « bon usage » de l’âme, du corps et du temps. Et le Della vita civile du diplomate Matteo Palmieri (publié vers 1439) prescrit les règles de l’éducation des enfants tout autant que les vertus du citoyen : l’homme y est décrit comme à un être à la fois réfléchi (méditant le rapport entre l’utile et l’honorable) et social(mettant en balance les intérêts individuels et l’intérêt général), ceci en dehors de toute référence religieuse.
Une école de pensée
L’humanisme s’inscrit dans la vie politique en 1434 à Florence quand Cosme de Médicis, un banquier parcourant l’Europe pour inspecter ses filiales, est nommé à la tête de la ville et devient le premier grand mécène privé de l’art (rôle qui était jusqu’alors le privilège de l’Église). Il fait peindre les fresques du couvent San Marco par Fra Angelico et, ayant entendu en 1438 les conférences du philosophe platonicien Gemiste Pléthon, il conçoit l’idée de faire revivre une académie platonicienne dans la ville, qui sera finalement fondée en 1459. Les philosophes Marsile Ficinpuis Jean Pic de la Mirandole et Ange Politien en sont les chevilles ouvrières. Reprenant l’idée selon laquelle le Beau est identique à l’Idée suprême, qui est aussi le Bien, Ficin fond le dogme chrétien dans la pensée platonicienne, contribuant à abolir la limite entre profane et sacré.
À la fin du siècle dans les cours italiennes, la technique de la perspective est totalement maîtrisée. La peinture tend alors parfois à n’être plus qu’un simple agrément : en fonction des commandes qu’il reçoit, un artiste tel que Botticelli peint aussi bien une Annonciation que la naissance de Vénus ou la célébration du printemps. Les thèmes traités importent moins que l’effet visuel produit par la virtuosité. Et quand certains artistes recourent à celle-ci pour représenter une « cité idéale », on n’y voit étrangement aucun personnage : institué en académisme, l’art donne alors l’image d’un humanisme d’où l’homme est absent.
Au plan artistique, au début du siècle, les productions des Italiens Léonard de Vinci (portrait de La Joconde, 1503-1506) et Michel Ange (Plafond de la chapelle Sixtine, entre 1508 et 1512) correspondent à l’apogée du mouvement de la Renaissance en même temps qu’elles en marquent le terme. Celui-ci s’épuise en académismes ou au contraire cède la place à des pratiques revendiquant la rupture avec l’imitation de la nature, telle qu’Alberti la préconisait, pour au contraire mettre en valeur la subjectivité de l’artiste. Entre 1520 et 1580, le maniérisme constitue la principale entorse à cette règle.
Aux plans politique et religieux, l’époque est principalement marquée par la Réforme protestante, impulsée en 1517 par l’Allemand Luther puis en 1537 par le Suisse Calvin, ainsi que par les meurtrières guerres de religions qui en résultent et qui vont diviser la France entre les années 1520 et l’édit de Nantes, en 1598.
Au plan scientifique, la principale découverte est l’œuvre de l’astronome Copernic qui publie en 1543 (quelques jours avant sa mort) une thèse qu’il a commencé à élaborer trente ans plus tôt selon laquelle la Terre tourne autour du Soleil et non l’inverse, ainsi qu’il était admis quasi exclusivement en occident.
Aux plan économique et culturel, les échanges marchands s’intensifient au sein de l’Europe et s’amorcent entre l’Europe et le reste de la planète. L’imprimerie permet également aux idées de circuler toujours plus. Ces deux facteurs contribuent à ce que l’humanisme n’est plus tant une tournure d’esprit qu’il faudrait préférer à une autre (comme, lors du siècle précédent, on contestait la scolastique) qu’une conception du monde à part entière, qui tend à se généraliser dans les esprits et d’orientation matérialiste. Et lorsque les Espagnols, en quête d’or et d’autres minerais, entreprennent de coloniser l’Amérique du Sud, c’est au nom des valeurs humanistes, en enjoignant les populations locales d’accepter la prédication de la religion chrétienne70.
Au début du siècle, Nicolas Machiavel, un fonctionnaire de la république de Florence, effectue plusieurs missions diplomatiques, notamment auprès de la papauté et du roi de France. Il observe alors les mécanismes du pouvoir et le jeu des ambitions concurrentes. En 1513, dans son ouvrage Le Prince, premier traité de science politique, il explique que pour se maintenir au pouvoir, un dirigeant doit absolument se défaire de toute considération d’ordre moral, privilégier la défense de ses intérêts et de ceux dont il est le souverain et, à cette fin, faire continuellement preuve d’opportunisme. À l’inverse, alors que les États-nations, à peine émergents, s’affrontent dans des guerres meurtrières, Érasme, un philosophe et théologien venu des Pays-Bas (qui sera plus tard surnommé le « prince des humanistes ») visite plusieurs pays d’Europe, s’y fait des amis (dont l’Anglais Thomas More) et lance en 1516 un vibrant appel à la paix :
« L’Anglais est l’ennemi du Français, uniquement parce qu’il est français, le Breton hait l’Écossais simplement parce qu’il est écossais ; l’Allemand est à couteaux tirés avec le Français, l’Espagnol avec l’un et l’autre. Quelle dépravation ! »
— Erasme, Plaidoyer pour la paix, Arléa, 2005 ; extrait [archive].
De même, témoins des guerres de religions qui divisent la chrétienté, notamment en France, il en appelle à la tolérance.
De la polymathie à la science
Connu surtout pour ses tableaux, Léonard de Vinci aborde également « l’homme » sous un angle physique et fonctionnel : l’anatomie.
Comme Érasme, Léonard de Vincifait partie des personnalités aujourd’hui considérées comme les plus représentatives de l’humanisme. Comme lui et quelques autres, tels Copernic, il visite des régions éloignées de la sienne et, ce faisant, invite au rapprochement des cultures. Sa production invite surtout à gommer d’autres frontières, celles-ci intérieures : celles qui cloisonnent les disciplines. Faisant preuve d’une ouverture d’esprit exceptionnelle, ses investigations tous azimutstémoignent d’une ouverture au monde sensible par l’entremise de l’expérience et du raisonnement méthodique, démarche que systématisera plus tard l’Anglais Roger Bacon et qui constituera le fondement de la science moderne.
Ce qui caractérise en premier lieu la science, c’est l’approche existentielle du monde, tant le macrocosme (l’univers) que le microcosme (l’être humain). Les dessins d’anatomie, en particulier, attestent une considération du corps humain comme d’un ensemble de mécanismes répondant à des fonctions précises.
Par ses dessins d’anatomie et ceux représentant toutes sortes de machines ainsi que des infrastructures militaires, Léonard de Vinci incarne la deuxième phase de l’humanisme, où l’on n’éprouve plus le besoin de se référer à l’Antiquité pour contourner le conservatisme de l’Église mais où l’on se tourne délibérément vers « son temps », la modernité, et ce qui en sont les fondements : la science et la technique. Après la mort de Léonard, en 1519, plus aucun peintre ne se consacrera à ces deux nouveaux champs et, après la mort de Michel-Ange, en 1564, peu seront peintre et architecte à la fois, pratique inaugurée par Giotto. En revanche, à partir du siècle suivant, différents mathématiciens, physiciens et astronomes se feront connaître par des prises de positions philosophiques (Descartes, Pascal, Newton, Leibniz…).
Au début du siècle, l’Europe du Nordconnait un développement économique spectaculaire, dont l’expansion des villes de Bruges, Anvers et Augsbourg est la meilleure expression. Mais dans le domaine artistique, l’Italie reste le foyer le plus dynamique et le plus significatif. Toutefois, ce n’est plus Florence qui entretient l’impulsion de la conception humaniste du monde mais Rome. La ville est envahie par de nombreux peintres et sculpteurs qui, au contact direct du patrimoine antique, prennent de plus en plus ouvertement comme modèle la civilisation précédant celle du christianisme. Non seulement berceau de la civilisation latine, la ville est aussi la capitale des papes.
Or ceux-ci, pour résister à la montée en puissance et à l’autonomisation des États-nations, attirent les artistes les plus novateurs par une active politique de mécénat. Par là même, ils confèrent une réelle et totale légitimité à l’esprit humaniste, contribuant même à le diffuser en Europe et dans le reste du monde, quand il est occupé par les conquistadores. L’un des symboles les plus significatifs de cette mutation est l’image du Christ, imberbe et musclé, et de la Vierge, prenant la pose, au centre du mur du fond de la Chapelle Sixtine, peint par Michel-Ange à la fin des années 1530 et qui représente le Jugement dernier. Autre grand symbole de la puissance déployée par l’église catholique pour contrer les contestations dont elle est l’objet, la Basilique Saint-Pierre, dont la construction s’étend sur plus d’un siècle (1506-1626) et à laquelle participe à nouveau Michel-Ange.
La critique sociale
Les conflits liés à la religion exposent les esprits réformateurs aux accusations d’hérésie, donc à la condamnation à mort. Certains utilisent alors le récit de fictioncomme moyen d’expression permettant une critique non frontale. En 1516, dans un essai intitulé a posterioriL’utopie,Thomas More(grand ami d’Érasme) prône l’abolition de la propriété privée et de l’argent, la mise en commun de certains biens, la liberté religieuse ainsi que l’égalité des hommes et des femmes. Et il estime que la diffusion des connaissances peut favoriser la création d’une cité dont le but serait le bonheur commun. Mais bien qu’ayant été proche du roi Henri VIII, celui-ci le fait condamner au billot.
Plus prudent, le Français François Rabelaisadopte une posture délibérément déconcertante : libre penseur mais chrétien, anticlérical mais ecclésiastique, médecin mais bon vivant, les multiples facettes de sa personnalité semblent contradictoires et il en joue. Apôtre de la tolérance et de la paix (comme Érasme, dont il est l’admirateur), il n’hésite pas à manier la parodie pour parvenir à ses fins. Son Pantagruel (1532) et son Gargantua(1534), qui tiennent à la fois de la chronique et du conte, annoncent le roman moderne.
De la glorification au constat amer
Alors que les débuts de l’humanisme de la Renaissance donnaient de l’homme une image prometteuse, voire glorieuse, à la fin du siècle, le spectacle tragique des guerres conduit les intellectuels à porter un regard désabusé sur l’humanité. En 1574, dans son Discours de la servitude volontaire, Étienne de la Boétie (alors âgé de 17 ans) s’interroge sur les raisons qui poussent les individus à miser leur confiance sur les chefs d’état au point de sacrifier leurs vies. Et à la même époque, dans ses Essais, son ami Montaigne, dresse un portrait tout aussi amer :
« Entre Pétrarque et Montaigne, on (est) pass(é) de la mise en scène d’un moi grandiose à celle d’un moi ordinaire, de l’éloge de l’individualité remarquable à la peinture de l’individualité basique. (…) Chez Montaigne, l’humanisme de la Renaissance apparaît désenchanté, désabusé et comme à son crépuscule : l’individualité de l’auteur et le reste de l’humanité y sont décrits avec un excès de scepticisme et de relativisme comme des choses assez ridicules, versatiles et vaines. »
— Abdennour Bidar, Histoire de l’humanisme en Occident, Armand Colin, 2014, p.185.
Dans le troisième livre de ses Essais, en 1580, Montaigne dégage le concept d’homme, à la fois unique et universel 71,72.
À la différence de Rabelais ou d’Érasme, confiants dans les capacités de la raison, Montaigne se refuse à la complaisance et répond par le doute : « La reconnaissance de l’ignorance est un des plus beaux et plus sûrs témoignages de jugement que je trouve. » L’idée de perfectibilité, lui est ainsi étrangère, il rejette toute idée de progrès, d’ascension lente et graduelle de l’humanité vers un avenir meilleur. Selon lui, l’homme n’est plus le centre de tout, mais un être ondoyant, insaisissable. Il se plait autant à en faire l’éloge qu’à l’abaisser, tout en recourant à l’observation de sa propre personne pour tenter d’en démêler les contradictions. Ce faisant, il pose les bases de ce qui deviendra plus tard la psychologie.
L’humanisme moderne
L’héritage de l’humanisme de la Renaissance s’évalue à trois niveaux, étroitement liés : philosophique, politique et économique et social.
Après la Renaissance, le principe d’autonomisation de la pensée par rapport à la foi n’est plus jamais remis en cause, il constitue par excellence le cadre de référence de l’ensemble de la culture occidentale. L’idée que les humains peuvent évoluer sans s’appuyer sur la religion stimule la démarche scientifique et inversement, celle-ci est vécue comme une émancipation, conduisant progressivement au déisme (croyance en un Dieu créateur abstrait, « grand horloger »), à l’agnosticisme (le doute de l’existence de Dieu), puis finalement à l’athéisme (le rejet même de toute croyance en Dieu) : au xixe siècle, Nietzscheaffirmera que « Dieu est mort ».
Corollaire de cette indépendance à l’égard du divin est la capacité des humains à s’organiser institutionnellement de façon que les idées, mises en débat, servent l’intérêt général. Cet idéal démocratique se concrétise au prix de « révolutions » politiques : d’abord au xviie siècle en Angleterre puis au siècle suivant aux États-Unis et en France. Mais finalement, celles-ci profitent en premier lieu à la classe bourgeoise, qui exerce alors à la fois le pouvoir économique et le pouvoir politique en parvenant à justifier ce cumul au nom de la liberté : c’est le libéralisme.
Les avancées de la science trouvent de nombreux terrains d’application et, progressivement, la techniques’inscrit dans un idéal d’émancipation (bonheur), progrès…). Sous l’effet de ses avancées s’amorce au xviiie siècle un processus économique, qui sera plus tard qualifié de « révolution » – la révolution industrielle – sans toutefois que celui-ci ait été prémédité ni débattu, comme on le dit d’une révolution politique. À tel point qu’au xixe siècle, Marxestime que, désormais, les idées (humanistes ou pas) ne permettent plus aux hommes d’élaborer des projets de société, tant ils sont désormais façonnés, « aliénés », par leurs modes de production ; et ceci d’autant plus qu’ils s’évertuent à croire qu’ils sont « libres ». À ce titre, Marx est fréquemment considéré comme celui qui ouvre la première grande brèche dans l’idéal humaniste. En revanche, en ne remettant pas en cause le productivisme lui-même mais seulement le capitalisme, et en considérant que, pour s’émanciper, les classes ouvrières doivent seulement prendre possession des moyens de production, les successeurs de Marx seront les promoteurs d’un nouveau type d’humanisme : l’humanisme-marxiste.
En 1687, Newtondémontre la capacité des hommes d’analyser la structure de l’univers sur la base de principes mathématiques.
En 1605, l’Anglais Francis Bacondéveloppe une théorie empiriste de la connaissance et, quinze ans plus tard, précise les règles de la méthode expérimentale, ce qui fait aujourd’hui de lui l’un des pionniers de la pensée scientifique moderne. Celle-ci émerge pourtant dans les pires conditions : en 1618, la thèse de Copernic selon laquelle la terre tourne autour du soleil et non l’inverse (héliocentrisme) est condamnée par l’Église ; et en 1633, cette dernière condamne Galilée, qui ose la défendre (elle ne consentira à infléchir sa position qu’un siècle plus tard).
Dans ce contexte d’ultime et extrême tension entre foi et raison, la philosophie, en tant que « conception du monde », recherche dans la science une caution morale qu’elle n’espère plus trouver de l’Église. Il est alors significatif qu’un certain nombre de philosophes sont également mathématiciens ou astronomes (Descartes, Gassendi, Pascal… ou plus tard Newton et Leibniz) et que des scientifiques émettent des positions fondamentalement philosophiques, tels Galilée qui déclare en 1623 dans L’Essayeur : « La philosophie est écrite dans ce livre immense perpétuellement ouvert devant nos yeux (je veux dire l’univers), mais on ne peut le comprendre si l’on n’apprend pas d’abord à connaître la langue et les caractères dans lesquels il est écrit. Il est écrit en langue mathématique et ses caractères sont des triangles, des cercles, et d’autres figures géométriques, sans l’intermédiaire desquels il est humainement impossible d’en comprendre un seul mot ».
En 1637, soit quatre ans seulement après le procès de Galilée, dans son Discours de la méthode, Descartes fonde le rationalisme et affirme que l’homme doit se « rendre comme maître et possesseur de la nature » : la philosophie naturelles’émancipe alors radicalement et définitivement de l’Église, point d’aboutissement de l’idéal humaniste73. Durant la seconde moitié du xviie siècle, avec la probabilité, le calcul infinitésimal et la gravitation universelle, le monde est de plus en plus pensé dans une optique quantitative, matérialiste74, ceci avec l’aide de techniquesdésormais considérées comme indispensables à sa connaissance, telles la machine à calculer ou le télescope.
Philosophe cartésien, Spinozaestime que l’on n’a ne plus à rechercher la vérité dans les Écritures mais dans ses propres ressources (philosophie pratique). Publiée à sa mort, en 1677, son Éthique invite l’homme à dépasser l’état ordinaire de servitude vis-à-vis des affects et des croyances pour atteindre le bonheur au moyen de la « connaissance ». Le titre complet de l’ouvrage (« Éthique démontrée suivant l’ordre des géomètres ») témoigne du fait que la foi en un dieu révélé s’efface au profit d’une « croyance en l’homme », un homme pour le coup totalement rationnel75 ; ceci bien que Spinoza se défende d’être athée : il ne conteste pas l’existence de Dieu mais identifie celui-ci à « la nature ».
À la fin du xviie siècle; la plupart des savants désertent l’université, encore engluée dans la théologie, mais tissent leurs propres réseaux et, par eux, finissent par imposer leurs découvertes et conditionner le terrain même de la philosophie. Avec Galilée puis Huygens, il est possible d’avoir une idée de l’éloignement des étoiles, de la taille de la Terre et des autres planètes ainsi que de leurs positions respectives. L’« homme » sur lequel se focalisaient les humanistes de la Renaissance et l’univers lui-même deviennent des données toutes relatives. Publiés en 1687, les Principes mathématiques de la philosophie naturelle du physicien Isaac Newton sont complétés par lui en 1726 (un an avant sa mort) et traduits en français trente ans plus tard par une maîtresse de Voltaire. Symbolisant la capacité de l’homme à concevoir le monde de façon abstraite (mathématique), cet écrit constitue l’un des fondements de la philosophie des Lumières76.
Conséquence ou effet corollaire de l’émancipation de la raison instrumentale et du développement de la science, certains penseurs vont peu à peu faire l’apologie des « vertus naturelles » (ou « morales »), se démarquant ainsi de l’éthique chrétienne. C’est le cas en particulier du Français La Mothe Le Vayer, un des premiers grands écrivains libertins, auteur en 1641 de son ouvrage le plus célèbre De la Vertu des païens77. « Son analyse affirme l’existence de vertus profanes valables sans le secours de la grâce, et indépendamment de toute inquiétude religieuse. C’est une des premières affirmations d‟une morale existant seule, sans le support de la religion, d’une morale pour ce monde-ci, de la morale laïque qui sera désormais un trait caractéristique de l’humanisme. (…) Cette analyse est pleinement humaniste par sa confiance en la nature et en la raison, et elle fait un grand pas vers celles des Lumières 78.» Coïncidence, c’est également en 1641, dans sa tragédie Cinna, que Pierre Corneille écrit ces mots : « Je suis maître de moi comme de l’univers ».
La Mothe Le Vayer et les libertins sont également à l’origine d’une conception de l’histoire « dégagée de l’emprise scripturaire, religieuse et ecclésiale, une histoire construite sur des bases historiques sûres et non théologiques, une histoire non finalisée, une histoire universelle entendue au sens d‟une collection de l’histoire des diverses nations » (…) « L’histoire de La Mothe Le Vayer ne s’inscrit pas dans un temps théologique orienté d’une création à des fins dernières ; il n’y a pas de téléologie à retrouver dans l’histoire : celle-ci est une lecture philosophique qui n’a rien à faire de l’assise biblique érudite. En évacuant la Bible comme « premier livre d’histoire » et Moïse comme « premier historien », les libertins annulent l’histoire sainte et laïcisentl’histoire. Celle-ci est humaniste en ce qu’elle exclut les contraintes extérieures, le « doigt de Dieu » cher à Bossuet, la Providence, le destin… toutes les formes de déterminisme. On passe d‟une histoire de croyance à une histoire de savoir »79.
L’aspiration à la démocratie
Alors que les scientifiques créent leurs espaces de débat en dehors de toute emprise religieuse, en Angleterre, un soulèvement populaire soutenu par l’armée conduit en 1640 à l’instauration d’une république. Dix ans plus tard, Thomas Hobbes publie Le Léviathan, un ouvrage considéré depuis comme un chef-d’œuvre de philosophie politique. Partant du principe que les individus, à l’état de nature, sont violents et que, par peur d’une mort violente, ils délèguent volontiers leurs responsabilités à un souverain qui leur garantit la paix, le philosophe élabore une théorie de l’organisation politique. En 1660, la monarchie est rétablie en Angleterre mais elle ne sera plus jamais absolue. Principal outil de la démocratie représentative, le parlementsymbolise alors le nouvel esprit du temps, un temps où, de plus en plus nombreux, les hommes éprouvent le sentiment de pouvoir prendre des décisions collectivement, en prenant leur autonomie vis-à-vis de leurs autorités de tutelle, qu’elles soient civiles ou religieuses.
Le siècle est marqué par de profondes mutations dans tous les domaines – économique, politique, social, technique… – lesquelles vont modifier en profondeur le paysage intellectuel. Pour comprendre celui-ci, il importe donc de rappeler brièvement le contexte.
À la suite d’une très forte poussée démographique en Europe, des changements économiques s’avèrent indispensables. L’aristocratie, qui assure les fonctions de gouvernance, doit y faire face. En Angleterre, pays de monarchie parlementaire, les nobles se lancent dans les affaires. En France, où s’exerce encore la monarchie absolue, ils y sont moins enclins : la majorité d’entre eux restent en effet rivés à leurs privilèges de caste et seules quelques quelques familles s’engagent dans les mines, les forges ou le commerce maritime. À des rythmes différents selon les pays, donc, un processus s’enclenche, le capitalisme, qui va profiter (au sens premier du terme) à la classe sociale montante, propriétaire et gérante des moyens de production : la bourgeoisie.
À la différence de l’aristocratie, donc, et dans les capitales comme en province, celle-ci fait travailler les autres, les emploie, les salarie… et se mobilise elle-même : non seulement dans le commerce, l’industrie (qu’elle « révolutionne ») et la finance mais aussi dans l’administration de l’État, à tous ses échelons, du ministre au petit fonctionnaire. Partout en Europe elle cumule alors les pouvoirs : économique, politique et juridique. C’est donc naturellement qu’elle exerce également un pouvoir intellectuel et qu’elle impose ses propres valeurs.
La première de ces valeurs est la liberté80, terme qu’il faut comprendre comme liberté à l’égard des anciennes tutelles : non plus seulement l’Église, comme aux temps de la Renaissance, mais du Prince, lequel, progressivement, va être destitué et remplacé (à chaque fois provisoirement) par « le peuple ». Liberté par conséquent d’ entreprendre quoi que ce soit. L’émancipation ne s’opère plus au niveau strictement philosophique : l’« homme » et son cogito ; mais à un niveau très pratique : les « humains » et leurs capacités à intervenir individuellement sur le monde. L’universalisme (l’idée que les humains sont supérieurs aux autres créatures, grâce à la raison et la parole, et que, grâce à elles, ils peuvent sans cesse mieux s’accorder entre eux) constitue le fondement de ce que l’on appellera l’humanisme des Lumières81. Du moins peut-on dire que les artisans des Lumières (non seulement les philosophes et théoriciens mais les « entrepreneurs » de toutes sortes) incarnent le concept d’humanisme82,83.
Liberté, connaissance, histoire, bonheur
« La philosophie des Lumières s’est élaborée à travers une méthode, le relativisme, et un idéal, l’universalisme »84. La confrontation de cette méthode et de cet idéal contribue à ce qu’au xviiie siècle, l’ensemble du débat philosophique oscille entre deux pôles : l’individu(tel ou tel humain, considéré dans sa singularité) et la société (la totalité des humains).
Cette bipolarité constitue l’axe ce que l’on appellera plus tard la modernité. Quatre idées fortes s’en dégagent.
La principale préoccupation des esprits « éclairés » est la liberté, plus exactement sa conquête. À la question Qu’est-ce que les Lumières ?, Kant répond : « Les Lumières, c’est la sortie de l’homme hors de l’état de tutelle dont il est lui-même responsable. L’état de tutelle est l’incapacité de se servir de son entendement sans la conduite d’un autre. On est soi-même responsable de cet état de tutelle quand la cause tient non pas à une insuffisance de l’entendement mais à une insuffisance de la résolution et du courage de s’en servir sans la conduite d’un autre. Sapere aude ! Aie le courage de te servir de ton propre entendement ! Telle est la devise des Lumières ». Tout l’effort des philosophes va porter sur les modalités (autrement dit les lois) à mettre en œuvre de sorte que la liberté de chacun ne nuise pas à celle des autres. À la suite de Locke85, Montesquieu86, Rousseau87 et beaucoup d’autres s’y emploient, qui contribuent, avec la Révolution française et la doctrine égalitariste, à promouvoir une conception juridique de la libertéqui mènera elle-même à la doctrine libérale.
Couverture des Éléments de la philosophie de Newton, mis à la portée de tout le monde de Voltaire (1738)
Le xviie siècle a été marqué par un développement très important des sciences ; le nouveau est caractérisé non seulement par le souci de poursuivre ce mouvement mais celui de consigner l’apport des sciences et le faire connaître. Le combat des Lumières contre l’« obscurantisme », c’est la connaissance : connaissance du monde, accrue par les explorations de Cook, La Pérouse et Bougainville ; connaissance de l’Univers, par les dernières découvertes en astronomie ou quand Buffon, dans son Histoire naturelle, affirme que la Terre est âgée de bien plus que les 6 000 ans attribués par l’histoire biblique) ; connaissance du métabolisme des êtres vivants… dont l’homme. Cet idéal trouver sa réalisation dans l’Encyclopédiede Diderot et D’Alembert, publiée entre 1750 et 1770.
Les philosophes focalisent leur intérêt sur « l’histoire ». En 1725, l’Italien Vico publie ses Principes d’une science nouvelle relative à la nature commune des nations, que Voltaire traduira sous le titre Philosophie de l’histoire en 1765, l’année même où, – coïncidence – le mot « humanisme » fait son apparition dans la langue française7. L’idée centrale de la philosophie de l’histoire est que celle-ci a un sens. Ainsi naît l’historicisme, une doctrine selon laquelle les connaissances et les valeurs d’une société sont liées à son contexte historique.
Autre idée forte, le bonheur, point de départ, là encore, d’une doctrine : l’eudémonisme88. À la fin du siècle, Saint-Just proclame que « le bonheur est une idée neuve en Europe », au xxe siècle, certains intellectuels (Eric Voegelin, Jacques Ellul…) y verront le substitut laïque du salut chrétien : « l’homme » n’a pas à espérer un quelconque et hypothétique salut dans l’au-delà, il doit en revanche rechercher le bonheur ici et maintenant, c’est une obligation(« le but de la société est le bonheur commun », proclame l’article 1er de la Constitution de 1793)89. Ellul précise que c’est parce que le bonheur finit par être assimilé à l’idée de confort matériel et que celui-ci ne peut s’obtenir qu’au prix du travail que la bourgeoisie promeut le travail en valeur et qu’elle engage le processus qui sera plus tard qualifié de « révolution industrielle ». Ce processus ne se serait jamais produit, affirme Ellul si, au préalable, la bourgeoisie n’avait pas réussi à faire croire (et à croire elle-même) que le travail est une valeur du fait qu’il conduit au bonheur.
« Liberté », « connaissance », « histoire », « bonheur » (… puis plus tard « travail », « progrès », « émancipation », « révolution ») : les idées des Lumières prolongent celles de la Renaissance et, comme elles, deviennent des idéaux, au sens où elles véhiculent l’idée optimiste qu’il est possible de définir l’homme. L’Essai sur l’hommed’Alexander Pope (1734 traduit en français cinq ans plus tard par Diderot) est significatif. Mais ces idéaux s’en différencient radicalement au moins sur deux points :
ceux qui portent ces idéaux sont animés par une volonté ferme de les réaliser concrètement et immédiatement : vers 1740, l’Anglais Hume fonde la philosophie sur l’empirisme(Traité de la nature humaine) ; vers 1750, les physiocratesfrançais contribuent à forger la conception moderne de l’économie ; vers 1780, Benthamindexe l’idée de bonheur au concept d’utilité.
Trois grandes orientations
Les idées des Lumières s’expriment par ailleurs différemment selon les pays.
En Grande-Bretagne, les choses se passent surtout de façon pragmatique, afin de théoriser après-coup les premiers effets de l’industrialisation et les justifier philosophiquement.
En France, pays fortement centralisé et de culture cartésienne, l’accent est mis sur le droit, le « contrat social » et la capacité d’organiser rationnellement la société.
En Allemagne, où l’approche métaphysique reste prégnante, la réflexion se focalise sur l’idéed’individu. Les philosophies revendiquent donc leur idéalisme.
Ces trois orientations ont en commun d’être portées par l’optimisme, une confiance en l’homme dans sa capacité à se comporter sereinement grâce à l’exercice de sa raison.
La Révolution industrielles’amorce en Grande-Bretagneet très vite, génère de l’inégalité sociale et de la paupérisation. Pour justifier les efforts à fournir, de nombreux textes sont publiés. En 1714, dans la Fable des abeilles, Bernard Mandevillesoutient l’idée que le vice, qui conduit à la recherche de richesses et de puissance, produit involontairement de la vertu parce qu’en libérant les appétits, il apporte une opulence supposée ruisseler du haut en bas de la société. Aussi, il estime que la guerre, le vol, la prostitution, l’alcool, les drogues, la cupidité, etc, contribuent finalement « à l’avantage de la société civile » : « soyez aussi avides, égoïstes, dépensier pour votre propre plaisir que vous pourrez l’être, car ainsi vous ferez le mieux que vous puissiez faire pour la prospérité de votre nation et le bonheur de vos concitoyens ». Cette approche influence de nombreux intellectuels, notamment le philosophe Adam Smith, au travers de sa métaphore de la main invisible, qu’il reprend à trois reprises pendant vingt ans, notamment en 1759 dans sa Théorie des sentiments morauxet en 1776 dans La Richesse des nations, quand il s’efforce de conférer à l’économie le statut discipline scientifique. Selon lui, l’ensemble des actions individuelles des acteurs économiques (qui sont guidés uniquement par leur intérêt personnel) contribuant à la richesse et au bien commund’une nation, le marché est comparable à un processus se déroulant de façon automatique et harmonieuse dans la mesure où les intérêts des individus se complètent de façon naturelle. Diversement interprétée, la métaphore de la main invisible sera maintes fois reprises pour symboliser le libéralisme économique en tant qu’idéologie.
C’est en Grande-Bretagne, où il séjourne de 1726 à 1729, que le Français Voltaire devient le principal initiateur des Lumières. Dans ses Lettres anglaises, publiées en 1734, il exprime son enthousiasme pour le mode de vie des quakers et leurs valeurs (intégrité, égalité, simplicité…), l’empirisme de Locke, les théories de Newton… La Franceva produire un grand nombre de textes fondateurs de la démocratie moderne. En 1748, dans De l’esprit des lois, Montesquieu (qui, comme Voltaire, a séjourné en Angleterre et a été séduit par la monarchie constitutionnelle et parlementaire) considère les données historiques, sociologiques et climatiques comme déterminantes. Sa théorie de la séparation des pouvoirs (législatif, exécutif et judiciaire) fera plus tard autorité, bien au-delà du pays. De 1751 à 1772 paraissent les volumes de l’Encyclopédie, coordonnée par Diderot et d’Alembert, qui donne une vue d’ensemble des réalisations humaines, privilégiant les domaines de la science et de la technique, ce qui lui confère un ton très progressiste. En 1755, dans son Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, Rousseaudéveloppe une idée qui sonnera bientôt comme un postulat : « l’homme est bon par nature et c’est la société qui le corrompt ». Pour que les hommes se portent mieux, estime Rousseau, il faut améliorer la société… projet assigné à la politique autour d’un concept nouveau, la souveraineté du peuple, et de valeurs étant mises en pratique de façon contractuelle : la liberté, l’égalité et la volonté générale(Du Contrat social, 1762)90. Cette approche aboutit, en France, au concept de droits de l’homme et plus spécialement, en 1789, à la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, qui influencera largement les déclarations de droits durant les siècles suivants.
Selon Kant, l’homme « éclairé » est responsable et maître de son destin.
En Allemagne, dans les années 1770, Herder et Goethe initient le mouvement romantique Sturm und Drang (« tempête et passion ») qui exalte la liberté et la sensibilité. À l’inverse, Lessinginvite à la retenue et la tolérance (Nathan le Sage). Dans les deux cas, la subjectivité est fortement valorisée. Kant affirme dans Critique de la raison pure (1781-1787) que le « centre » de la connaissance est le sujet et non une réalité extérieure par rapport à laquelle l’homme serait passif. Ce n’est donc plus l’objet qui oblige le sujet à se conformer à ses règles, c’est le sujet qui donne les siennes à l’objet pour le connaître. Ceci signifie que nous ne pouvons pas connaître la réalité « en soi » mais seulement telle qu’elle nous apparaît sous la forme d’un objet, ou phénomène. En 1784, Kant écrit ces mots : « L’Aufklärung, c’est la sortie de l’homme hors de l’état de minorité dont il est lui-même responsable. L’état de minorité est l’incapacité de se servir de son entendement sans la conduite d’un autre. On est soi-même responsable de cet état de minorité quand la cause tient non pas à une insuffisance de l’entendement mais à une insuffisance de la résolution et du courage de s’en servir sans la conduite d’un autre ».
L’expression « droit de l’homme » fait aujourd’hui consensus, ce qui interroge certains penseurs, dont l’historien du droit français Jacques Ellul : « Je suis toujours étonné que cette formule réunisse un consensus sans faille et semble parfaitement claire et évidente pour tous. La Révolution française parlait des « droits de l’homme et du citoyen ». Les droits du citoyen , j’entends : étant donné tel régime politique, on reconnaît au membre de ce corps politique tel et tel droit. Ceci est clair. De même lorsque les juristes parlent des droits de la mère de famille, ou le droit du mineur envers son tuteur, ou le droit du suspect. Ceci encore est clair. Mais les droits de l’homme ? Cela veut donc dire qu’il est de la « nature » de l’homme d’avoir des « droits » ? Mais qu’est-ce que la nature humaine ? Et que signifie ce mot « droit », car enfin, jusqu’à preuve du contraire, le mot « droit » est un mot juridique. Il a et ne peut avoir qu’un sens juridique. Ce qui implique d’une part qu’il peut être réclamé en justice, et qu’il est également assortie d’une sanction que l’on appliquera à celui qui viole ce droit. Bien plus, le droit a toujours un contenu très précis, c’est tout l’art du juriste que de déterminer avec rigueur le sens, le seul sens possible d’un droit. Or, quand nous confédérons, en vrac, ce que l’on a mis sous cette formule des droits de l’homme, quel est le contenu précis du « droit au bonheur », du « droit à la santé », du « droit à la vie« , du « droit à l’information », du « droit au loisir », du « droit à l’instruction » ? Tout cela n’a aucun contenu rigoureux »91.
À la fin du siècle, les faitscommencent à révéler le caractère utopique des théories des Lumières : l’épisode de la Terreurruine l’idéal rousseauiste de « l’homme naturellement bon » et la montée en puissance des nationalismes, qui s’impose à la fin du siècle, démontre le caractère irréaliste du projet d’émancipation kantien : alors que l’État devient la grande figure d’autorité en lieu et place de l’Église, « l’incapacité de se servir de son entendement sans la conduite d’un autre » est telle que le « sujet » reste majoritairement « l’objet » de ses propres passions. La pratique de l’esclavage par les chrétiens américains inspire à William Blake l’image d’une humanité violemment écartelée par ses contradictions (Nègre pendu par les côtes à un échafaud, 1792) tandis que l’art halluciné de Füssli(Le Cauchemar, 1781) annonce les tourments et les doutes qui assailliront bientôt « l’homme moderne » et dont l’art romantiquese fera le témoin au xixe siècle. Plus prémonitoire encore est le poème de l’Apprenti sorcier, de Goethe, en 1797, qui décrit un homme démiurge littéralement dépassé par ses créations, incapable de les contrôler.
Encore relativement marginales, ces prises de positions vont se cristalliser, durant les deux siècles suivants, dans un courant parfois qualifié d’Anti-Lumières ou d’anti-humaniste tandis qu’en revanche beaucoup plus important, l’esprit progressiste va constituer l’héritage des Lumières et se justifier par des discours moralisateurs, vantant à la fois les mérites du travail et ceux de l’entr’aide sociale.
Se démarquant des inquiétudes de ces intellectuels, la bourgeoisie réagit par une forme d’activisme social. À la misère générée par l’industrialisation, qui contredit la thèse d’Adam Smith de l’autorégulation du marché, elle réagit par l’action philanthropique. En 1780 naît à Paris la Société philanthropique (toujours active aujourd’hui) qui, sept ans plus tard, définit ainsi sa mission : « Un des principaux devoirs des hommes est (…) de concourir au bien de (leurs) semblables, d’étendre leur bonheur, de diminuer leurs maux. (…) Certainement, un pareil objet entre dans la politique de toutes les nations et le mot philanthrope a paru le plus propre à désigner les membres d’une société particulièrement consacrée à remplir ce premier devoir de citoyen »92. Au xxe siècle, la philosophe Isabel Paterson établit ainsi les liens entre charité chrétienne, philanthropie et humanisme : « Si l’objectif premier du philanthrope, sa raison d’être, est d’aider les autres, son bien ultime requiert que les autres soient demandeurs. Son bonheur est l’avers de leur misère. S’il veut aider l’humanité, l’humanité tout entière doit être dans le besoin. L’humaniste veut être le principal auteur de la vie des autres. Il ne peut admettre ni l’ordre divin, ni le naturel, dans lesquels les hommes trouvent les moyens de s’aider eux-mêmes. L’humaniste se met à la place de Dieu »93.
xixe siècle
Jusqu’au siècle précédent, le travailn’était pas considéré comme une valeur. Il l’est devenu quand, peu à peu, la bourgeoisie a exercé les pouvoirs économique et politique94. Désormais, le travail est fourni « en quantité industrielle » : le nouveau siècle est en tout cas caractérisé par un processus qui, après coup, sera qualifié de « révolution » mais qui – à la différence des révolutions américaine et française, au xviiie siècle – n’est pas un événement politique à proprement parler : la « révolution industrielle ». Né en Grande-Bretagne puis ayant gagné le reste de l’Europe, il se manifeste par la prolifération des machinesdans les usines, dans le but affiché d’accroître la productivité. Mais, comme le démontre Karl Marx à partir de 1848, le système qui en découle, le capitalisme, ne profitequ’à un nombre restreint d’humains, précisément les « bourgeois », tandis que beaucoup d’autres se retrouvent sur-exploités.
Considéré par beaucoup comme un humaniste95, Jules Ferryoppose en 1885 les « races supérieures » aux « races inférieures ».
C’est précisément à cette époque que les milieux bourgeois commencent à répandre le terme « humanisme » : « Le mécanisme de la justification est la pièce centrale de l’œuvre bourgeoise, sa signification, sa motivation » explique Jacques Ellul96. « Pour y arriver, le bourgeois construit un système explicatif du monde par lequel il rend légitime tout ce qu‘il fait. Il lui est difficile de se reconnaître comme l’exploiteur, l’oppresseur d’autrui, et en même temps le défenseur de l’humanisme. En cela, il exprime un souci propre à tout homme, celui d’être à la fois en accord avec son milieu et avec lui-même. Quand il ne veut pas reconnaître les motivations réelles de son action, il n’est donc pas plus hypocrite qu’un autre. Mais parce que, plus que d’autres, il agit sur le monde, il se constitue un argumentaire des plus élaborés visant à légitimer son action. Non seulement aux yeux de tous mais aussi – et d’abord – à lui-même, pour se conforter97.
Dès les années 1840, les critiques commencent à fuser : alors que le xviiie siècle avait proclamé la liberté, les premiers anarchistes affirment que l’État a pris la place de l’Église et du Roi comme source d’autorité. Et alors que la société industrielle se révèle inégalitaire, Proudhon ironise sur le mot « humanisme », inaugurant ce qu’on appellera plus tard « la question sociale » et le socialisme.
De fait, un nouveau type de déférence s’exprime, axé sur « la foi dans le progrès » scientifique et l’étatisme, le tout sur fond de déchristianisation. La situation est d’autant plus paradoxale que, comme ils l’avaient fait en Amérique du Sud au xvie siècle, c’est appuyés par l’Église catholique que les Européens, en quête de minerais et sous prétexte d’apporter la civilisation, s’en vont coloniserl’Afrique et l’Asie du Sud-est. En 1885, Jules Ferry, bien que fervent défenseur de la laïcité, déclare : « les races supérieures ont le devoir de civiliser les races inférieures »98. Le concept de racisme contribuera par la suite à discréditer profondément et durablement celui d’humanisme99,100.
Humanisme = idéalisme
En 1808, F. I. Niethammerdistingue catégoriquement l’humanisme de la philanthropie.
Au début du siècle, certains intellectuels soulignent que la philanthropie n’est qu’un succédané de la charité chrétienne. En 1808, le théologien allemand F. I. Niethammer publie un ouvrage intitulé « Le débat entre le philanthropisme et l’humanisme dans la théorie éducative actuelle », en réaction précisément au concept de philanthropie. Et deux ans plus tard, dans son livre De l’Allemagne, Mme de Staël estime que Diderot« a besoin de suppléer, à force de philanthropie, aux sentiments religieux qui lui manquent »101. Ainsi peu à peu émerge l’idée que, tant qu’elle se réfère à la morale, toute approche de l’homme par l’homme se réduit à un cortège de bons sentiments.
Dans un courrier qu’il adresse à Niethammer, Hegel le félicite d’avoir distingué le « savoir pratique » du « savoir savant » et de s’être démarqué de l’idée de philanthropie pour promouvoir le concept d’humanisme102. Dans son œuvre, Hegel lui-même n’utilise pas le terme « humanisme » mais, l’année précédente, dans sa Phénoménologie de l’Esprit, il s’est efforcé de décrire « l’évolution progressive de la conscience vers la science » dans le but annoncé d’analyser « l’essence de l’homme dans sa totalité ». Selon Bernard Bourgeois, Hegel a développé dix ans plus tôt, vers 1797-1800, une nouvelle conception de l’humanisme : « ce n’est plus l’humanisme kantien de l’universel abstrait mais l’humanisme de l’universel concret, c’est-à-dire de la totalité, l’humanisme qui veut rétablir l’homme dans sa totalité »103.
De l’idéal aux doutes
Dans le Tres de Mayo, Goyarelate en 1814 un crime de guerre : des civils espagnols sont assassinés par des soldats français.
Les premières grandes critiques à l’encontre des idéaux des Lumières s’expriment aux lendemains des conflits nés de la Révolution française puis des guerres napoléoniennes, qui ont fracturé l’Europe pendant quinze ans (1799-1815). Les Désastres de la guerreen font partie, qui sont une série de gravures exécutées entre 1810 et 1815 par Goya. Tout comme son Tres de mayo, réalisé à cette époque, elles dénoncent les crimes de guerre perpétrés tant par les armées françaises sur les populations civiles espagnoles que par les soldats espagnols sur les prisonniers français. Goya ne prend parti ni pour les uns ni pour les autres : décrivant les atrocités comme le feront plus tard les photo-journalistes, il se livre à une méditation qui relève d’un « humanisme saisissant »104.
Le mouvement romantique participe de cette volonté de critiquer l’universalisme des Lumières105 en mettant en relief les arrières-plans de la psyché, les émotions et pulsions jusqu’alors déconsidérées. Dans le Portrait de l’artiste dans son atelier (1819), Géricault se montre « humaniste plus que simplement romantique »106 en s’exposant seul et mélancolique, un crâne humain posé derrière lui, symbole classique de la vanité.
Quelques philosophes s’attachent à dénoncer le libéralisme, tant politique qu’économique, au motif qu’il entretient une approche de l’existence qu’ils jugent étroitement comptable, au détriment de la sensibilité. Schopenhauer et Kirkegaard, en particulier, développent une vision du mondeouvertement désenchantée, voire pessimiste, qui est une réaction à l’inhumanité de l’époque et, par là même, le témoignage d’un nouveau type d’humanisme107,108.
Alors qu’en France les idéaux révolutionnaires s’éteignent avec l’instauration d’un empire autoritaire et que les effets inégalitaires de l’industrialisation massive deviennent criants, certains penseurs libéraux tentent à la foisde conférer le statut de science à l’économie et d’y infuser un parfum d’humanisme.
En 1817, notamment, dans Des principes de l’économie politique et de l’impôt, l’Anglais David Ricardos’efforce d’asseoir l’économie politique sur des bases rationnelles mais, contraint par les faits (la poussée démographique, l’urbanisation, la paupérisation…), il veille scrupuleusement à les intégrer dans ses calculs comme des données objectives. Il est le premier économiste libéral à penser la répartition des revenus au sein de la société en prenant en compte « la question sociale ». Au point que certains considèrent qu’il s’est mis « au service du bien public », que « la rigueur de son raisonnement lui permet de trouver les solutions les plus aptes à garantir la prospérité de ses concitoyens » et que, par conséquent, « sa démarche comporte une motivation humaniste incontestable »109,110.
En 1820, dans les Principes de la philosophie du droit, Hegels’inscrit dans le sillage de la doctrinehistoriciste et pose les fondements d’une nouvelle doctrine : l’étatisme. Il écrit : « il faut vénérer l’État comme un être divin-terrestre »111. Il se réfère alors à l’État moderne, dont le Saint-Empire romain germanique, au xiie siècle, est l’archétype dès lors qu’il s’est révélé le concurrent de l’autorité papale (plus de détails) et qui culmine avec la Révolution française(qu’il qualifie de « réconciliation effective du divin avec le monde »112). Hegel voit en Napoléon celui qui a imposé le concept d’État-nation, lequel reste à ce jour le système politique dominant. Selon lui, l’État est la plus haute réalisation de l’idée divine sur terre (il parle d’« esprit enraciné dans le monde »113)114 et le principal moyen utilisé par l’Absolupour se manifester dans l’histoire. Bien plus qu’un simple organe institutionnel, il est « la forme suprême de l’existence », « le produit final de l’évolution de l’humanité », « la réalité en acte de la liberté concrète »115, le « rationnel en soi et pour soi »114.
Aux lendemains de la Seconde Guerre mondiale, plusieurs intellectuels (principalement Cassirer116 et Popper117) se demanderont si, au lieu de considérer Hegel comme un humaniste, il ne convient pas voir en lui un précurseur du totalitarisme. D’autres sont plus mesurés, tel Voegelin, qui voit en lui un héritier du gnosticisme, un courant de pensée remontant à l’Antiquité et selon lequel les êtres humains sont des âmes divines emprisonnées dans un monde matériel118. Plus précisément Voegelin estime que si procès il doit y avoir, ce n’est pas celui d’Hegel qu’il faut ouvrir mais celui de la modernité dans son ensemble, laquelle, selon lui, s’enracine dans la tentative de faire descendre le paradis sur terre et de faire de l’accès aux moyens du bonheur ici-bas la fin ultime de toute politique.
Hegel est-il « humaniste » ou « totalitaire » (ou encore « absolutiste »119) ? Cette question divise bon nombre d’intellectuels. Jacques Ellul estime que la divinisation de l’État, telle que formulée par Hegel, ne s’opère pas seulement dans les dictatures militaires, elle s’observe également dans ce que Bergson puis Popperappellent la société ouverte (les États portés par les principes de tolérance, de démocratie et de transparence). Selon lui, tout État est totalitaire : « le mouvement de l’histoire non seulement ne précipite pas la chute de l’État mais il le renforce. C’est ainsi, hélas, que toutes les révolutions ont contribué à rendre l’État plus totalitaire ». Faisant allusion à Hegel, il poursuit : « La bourgeoisie n’a pas seulement fait la révolution pour prendre le pouvoir mais pour instituer le triomphe de la Raison par l’État »120. Et il précise que, dès lors que les humains n’ont pas conscience de s’en remettre à l’État pour tout ce qui concerne leur existence, toute discussion sur l’humanisme est vaine car toutes leurs prétentions à s’émanciper le sont également. Et plutôt que de parler de divinisation (terme qui renvoie à une manière d’être assumée), Ellul parle de sacralisation (qui désigne en revanche une posture inconsciente) : « ce n’est pas l’État qui nous asservit, même policier et centralisateur, c’est sa transfiguration sacrale »121.
La volonté d’humaniser le capitalisme se traduit également dans les années 1820 par une volonté de le réformer en profondeur, quand l’usage du mot socialisme commence à se généraliser122. Formant ce que l’on appellera plus tard le « socialisme utopique », ses promoteurs s’appellent Robert Owen, en Grande-Bretagne, Charles Fourier, Étienne Cabet et Philippe Buchezen France. On peut les considérer comme « humanistes » au sens où ils « refusent la réduction de l’homme à la marchandise »123 et où ils expriment leur confiance dans l’homme, du fait qu’il peut façonner, transformer, le monde. Ne contestant pas spécialement la pression des machines sur les humains, ils retirent au contraire du phénomène de l’industrialisation un idéal d’émancipation.
Le plus prosélyte d’entre eux est Saint-Simon. Il voit dans l’industrialisation le moteur du progrès social et aspire à un gouvernement exclusivement constitué par des producteurs (industriels, ingénieurs, négociants…) dont le devoir serait d’œuvrer à l’élévation matérielle des ouvriers au nom d’une morale axée sur le travail et la fraternité124. Conçue comme une « science de la production » au service du bien-êtrecollectif, cette approche s’exprime dans un vocabulaire religieux (Catéchisme des industriels, 1824 ; Nouveau christianisme, 1825). En 1848, Auguste Comte fait même du saint-simonisme une église hiérarchisée, l’Église positiviste.
En 1841, Ludwig Feuerbach, ancien disciple de Hegel, en devient le principal critique en publiant L’Essence du christianisme, un ouvrage fondateur d’un véritable courant matérialiste. Selon son auteur, croire en Dieu est un facteur d’aliénation : dans la religion, l’homme perd beaucoup de sa créativité et de sa liberté125. De par sa prise de distance avec le phénomène religieux, l’ouvrage s’inscrit dans sillage de la philosophie humaniste. Il va toutefois inciter Karl Marx et Friedrich Engels à critiquer très sévèrement la part idéaliste de l’humanisme (lire infra).
En 1845, dans la sixième thèse sur Feuerbach, Marx écrit que « l’essence humaine, c’est l’ensemble des rapports sociaux ». Il inaugure ainsi une critique de l’humanisme en tant que conception idéaliste de l’homme126 : « Les idées, les conceptions et les notions des hommes, en un mot leur conscience, changent avec tout changement survenu dans leurs conditions de vie, leurs relations sociales, leur existence sociale. Que démontre l’histoire des idées, si ce n’est que la production intellectuelle se transforme avec la production matérielle ? Les idées dominantes d’une époque n’ont jamais été que les idées de la classe dominante. »127.
La question de savoir si Marx est humaniste ou non s’est fréquemment posée au xxe siècle128,129. Les avis sont partagés. Lucien Sève, par exemple, estime que c’est le cas mais Louis Althusser pense le contraire. Selon lui :
Avant 1842, Marx est un humaniste traditionnel. Marqué par Kant (qui fait l’apologie du sujet et selon qui celui-ci doit toujours choisir son action de sorte qu’elle devienne « la règle de l’humanité) mais aussi par les libéraux anglais (qui font coïncider l’intérêt de l’individu avec l’intérêt général), il évoque tout comme eux « l’essence de l’homme ».
De 1842 à 1845, Marx ne pense plus à « l’homme » mais aux hommes, dans leur pluralité. Et il estime qu’ils peuvent aussi bien obéir à la déraison qu’à la raison. À la différence de « l’homme », qui n’est qu’une idée abstraite et idéale, les hommes sont des entités concrètes, inscrites dans l’Histoire. Or l’Histoire résulte du conflit entre la raison et la déraison, la liberté et l’aliénation.
À partir de 1845, Marx non seulement rompt avec toute théorie sur « l’essence de l’homme » mais il estime que toutes les théories de ce type (qu’il regroupe sous le terme « humanisme ») forment une idéologie, un moyen plus ou moins conscient pour les individus qui les propagent d’entretenir une forme de domination sur d’autres individus. Il entreprend alors de fonder une théorie de l’Histoire sur autre chose que « l’homme »130.
Jacques Ellul estime que l’analyse d’Althusser est biaisée : si, comme il le prétend, Marx devient un anti-humaniste, c’est parce qu’il taxe l’humanisme d’idéalisme. Mais ce faisant, il appelle de ses vœux un humanisme matérialiste : « il rejette la philosophie humaniste du xixe siècle bourgeois. (…) Mais cela ne signifie en aucun cas qu’il n’est pas un humaniste. Si « humanisme » signifie donner à l’homme une place privilégiée, dire qu’il est créateur d’Histoire et qu’il peut seul se choisir pour devenir quelque chose de nouveau, alors Marx est parfaitement humaniste »131. Ellul considère par conséquent que Marx incarne à lui seul le passage d’un certain type d’humanisme (que Marx fustige) à un autre type d’humanisme (qui se concrétisera de fait et qu’on appelle aujourd’hui « humanisme-marxiste »).
En 1859, Marx écrit : « Ce n’est pas la conscience des hommes qui détermine leur existence, c’est au contraire leur existence sociale qui détermine leur conscience. (…) On ne juge pas un individu sur l’idée qu’il a de lui-même. On ne juge pas une époque de révolution d’après la conscience qu’elle a d’elle-même. Cette conscience s’expliquera plutôt par les contrariétés de la vie matérielle. »132. Et il considère que les institutions politiques, les lois, la religion, la philosophie, la morale, l’art, la conscience de soi… (qu’il regroupe sous le terme « superstructures ») sont façonnés, déterminées, par les conditions de production (climat, ressources naturelles), les forces productives (outils, machines) et les rapports de production (classes sociales, domination, aliénation, salariat…), qu’il appelle « infrastructures ».
Dans L’évolution de l’Homme(1879), de Ernst Haeckel, l’homme constitue le point culminant de toute l’évolution.
L’argument selon lequel la science prend le relai de la religion imprègne toute la pensée du xixe siècle et culmine en 1859 quand le paléontologue anglais Charles Darwin publie De l’origine des espèces, ouvrage aujourd’hui considéré comme le texte fondateur de la théorie de l’évolution. Sur la base de recherches scientifiques, il avance l’idée que les espèces vivantes, végétales et animales, descendent d’autres espèces, les plus anciennes ayant disparu, et qu’il est possible d’établir une classification en vue de déterminer leurs « liens de parenté » (thèse de la sélection naturelle).
Accessible au grand public, ce livre fait l’objet de débats intenses et passionnés, qui ne prendront fin que beaucoup plus tard, suscitant notamment l’opposition de l’Église anglicane133 et du Vatican134 car il contredit la théorie religieuse en vigueur à l’époque de la création divine des espèces de manière séparées et leur immutabilité. Cette réaction des Églises leur sera préjudiciable.
En 1866, le naturaliste allemand Ernst Haeckel commence à représenter la filiation des espèces sous la forme d’arbres généalogiques : les arbres phylogénétiques. On notera que, loin de figurer l’homme comme une espèce parmi d’autres, et donc de le déprécier, il le place systématiquement en bout de chaîne, comme constituant le point le plus avancé de l’évolution de la nature. Ce type de représentation s’inscrit dans la pure tradition humaniste135.
L’homme objet, l’argent sujet
En 1867, dans Le Capital, Marxconteste la glorification de l’homme en tant que « sujet », visioninaugurée par Kant et la philosophie des Lumières. Dans le monde capitaliste, explique-t-il, l’économiefaçonne entièrement les modes de vie, la circulation de l’argent joue un rôle « capital » et le fruit du travail des hommes n’étant plus considéré que comme une vulgaire marchandise, les humains, pour se sentir reconnus, en viennent à « fétichiser toute marchandise », ils lui sont aliénés. Aux yeux de Marx, « l’essence » de l’homme et la « nature humaine » sont par conséquent des concepts philosophiques ne présentant plus aucun intérêt. Ellul résume ainsi la position de Marx : « Un nombre croissant d’individus cessent de pouvoir agir sur la société : ils cessent d’être sujets pour être transformés en objets. Et c’est l’argent, qui devrait être objet, qui devient sujet »136.
Si l’on prétend encore s’intéresser à l’homme, explique Marx, c’est vers l’étude de ses « conditions » matérielles qu’il faut désormais se tourner puis, ensuite, vers les modalités selon lesquelles on peut agir pour les abolir et ainsi se désaliéner. Ellul avance la thèse que si les marxistes n’ont jamais réussi à réaliser le projet émancipateur de Marx par la révolution, c’est parce qu’il n’ont pas compris ce que dit Marx à propos de l’argent : le problème majeur n’est pas tant de savoir qui sont ceux qui l’accumulent à leur profit puis de les renverser que l’argent lui-même : celui-ci en effet est devenu
« … le médiateur de toutes les relations. Quelle que soit la relation sociale, elle est médiatisée par l’argent. Au travers de cet intermédiaire, l’homme considère son activité et son rapport aux autres comme indépendants de lui et dépendants de cette grandeur neutre qui s’interpose entre les hommes. Il a extériorisé son activité créatrice, dit Marx, qui ajoute : L’homme n’est plus actif en tant qu’homme dans la société, il s’est perdu. Cessant d’être médiateur, il n’est plus homme dans la relation avec les autres ; il est remplacé dans cette fonction par un objet qu’il a substitué à lui-même. Mais en agissant ainsi en considérant sa propre activité comme indépendante de lui, il accepte sa servitude. (…) Dans la médiation de l’argent, il n’y a plus aucune espèce de relation d’homme à homme ; l’homme est en réalité lié à une chose inerte et les rapports humains sont alors réifiés. »
— Jacques Ellul, La pensée marxiste, La table ronde, coll. « Contretemps », 2003, p. 175.
Reprenant l’argument d’Althusseraffirmant que Marx est un antihumaniste, Ellul rétorque que ce n’est pas Marx qui est antihumaniste mais son époque, dès lors que les relations entre les humains sont totalement dépendantes de l’argent dont ils disposent. alors que cet argent ne devait rester pour eux qu’un vulgaire objet, ils en sont devenus la « chose »137.
« Dieu est mort ! Dieu reste mort ! Et c’est nous qui l’avons tué ! Comment nous consoler, nous les meurtriers des meurtriers ? (…) La grandeur de cet acte n’est-elle pas trop grande pour nous ? Ne sommes-nous pas forcés de devenir nous-mêmes des dieux simplement — ne fût-ce que pour paraître dignes d’eux ? »
Ernest Renan souhaite en 1890 que l’humanité soit « organisée scientifiquement ».
Cette formule de Nietzsche et sa théorie du surhomme sont souvent interprétées comme l’expression de la volonté de puissance, l’orgueil prométhéen, l’hybris. Certains138 y voient également la formulation d’une crainte sourde : que la croyance en Dieu s’éteignant, la religiosité n’emprunte d’autres voies139… notamment celle de l’humanisme. Déjà, en 1846, dans Misère de la philosophie, Pierre-Joseph Proudhon voyait dans celui-ci « une religion aussi détestable que les théismes d’antique origine »140.
Nietzsche ne dit pas explicitement que l’humanisme constitue une nouvelle religion mais il avance l’idée qu’une majorité de ses contemporains font du progrès un mythe et qu’à travers celui-ci, ils croient en l’homme comme on croit (ou croyait) en Dieu (lire supra). En 1888, il écrit ces mots :
« L’humanité ne représente nullement une évolution vers le mieux, vers quelque chose de plus fort, de plus élevé au sens où on le croit aujourd’hui. Le progrès n’est qu’une idée moderne, c’est-à-dire une idée fausse. L’Européen d’aujourd’hui reste, en valeur, bien au-dessous de l’Européen de la Renaissance ; le fait de poursuivre son évolution n’a absolument pas comme conséquence nécessaire l’élévation, l’accroissement, le renforcement. »
— L’Antéchrist. Trad. Jean-Jacques Pauvert, 1967, p. 79
De fait, deux ans plus tard, dans L’avenir de la science, Ernest Renanécrit : « organiser scientifiquement l’humanité, tel est le dernier mot de la science moderne, telle est son audacieuse mais légitime prétention »141. Il devient ainsi l’apôtre du scientisme, vision du monde s’inscrivant dans le sillage du rationalisme, du saint-simonisme et du positivisme, selon laquelle la science expérimentale prime sur les formes plus anciennes de référence (notamment religieuses) pour interpréter le monde142.
Pour certains critiques, l’athéismede Nietzsche a donc une conséquence que lui-même redoutait : une mystification de l’humanisme143,144. Pour d’autres, il signifie carrément la mort de l’humanisme : « en déplaçant l’homme de son statut de l’être, de son humanité vers sa nature la plus primitive, Nietzsche (…) déplace l’homme du piédestal de sa conscience pour le remettre sur pieds et sur terre, il le ramène à son corps et à sa biologie »145. S’il est permis d’analyser la pensée de Nietzsche comme une « réduction de l’humain à la biologie », celle-ci préfigure alors des thèses qui fleuriront au xxe siècle (lire infra). En tout cas, quelques années seulement après la mort de Nietzsche, un philosophe marqué par lui, Jules de Gaultier, critique vertement le scientisme : « aucune conception n’est plus contraire à l’esprit scientifique que cette croyance en un finalisme métaphysique. C’est purement et simplement un acte de foi. Le scientisme relève, sous ce jour, d’une croyance idéologique comme les diverses religions relèvent de la croyance théologique »146.
L’idéologie scientiste disparaîtra au début du xxe siècle et Jacques Ellull’expliquera en disant que « l’activité scientifique est (désormais) surclassée par l’activité technique (car) on ne conçoit plus la science sans son aboutissement technique », ses applications147. Stimulé par une quête permanente de confort, l’esprit utilitariste asservit la science à la technique et c’est cette dernière qui, à présent, est sacralisée :
« La technique est sacrée parce qu’elle est l’expression commune de la puissance de l’homme et que, sans elle, il se retrouverait pauvre, seul et nu, sans fard, cessant d’être le héros, le génie, l’archange qu’un moteur lui permet d’être à bon marché. »
Le début du siècle est ébranlé par les Guerres mondiales, les régimes totalitaires et les crises économiques. Chez les intellectuels, ces événements ruinent définitivement l’optimisme fondateur des Lumières152. Pourtant, au sein des populations, le confort domestique et les moyens de transport renforcent la « foi dans le progrès ». Au point que même les chrétiens, qui fustigeaient auparavant l’utilitarisme et le positivisme, participent de cet engouement153. Les avertissements d’un Georges Sorel, en 1908154, restent sans écho. Le progressismeest même célébré dans bon nombre de partis politiques.
Les régimes totalitaires infléchissent le débat sur l’humanisme : peut-on rester soi-même dans un mouvement de masse ? La politique est-elle une religion séculière ?…
Ici, seul contre tous, un homme refuse de faire le salut nazi en 1936.
Apparus au xviiie siècle et rigoureusement constitués à la fin du xixe, ceux-ci passionnent désormais les foules (création en France du Parti radical en 1901 et de la SFIO en 1905). En 1917, la Révolution russe, dont l’objectif proclamé est de concrétiser les analyses de Marx, va peu à peu scinder l’humanité en deux camps, le capitalisme et le socialisme, selon les principes économiques préconisés par le libéralisme ou au contraire le marxisme.
Après la Seconde guerre, Raymond Aron estime que, de par les espoirs qu’elle suscite, la politique est devenue une « religion séculière »155. Pendant plusieurs décennies, les deux blocs vont s’opposer par petites nations interposées et quand, à la fin du siècle, prend fin cette « Guerre froide » et que, partout sur la planète, le marché dicte ses lois et impose ses effets (conflits armés locaux, pauvreté, précarité…) mais que, paradoxalement, on qualifie cette période de « détente », les concepts d’illusion politique156 et de religion politique157 restent marginalement traités.
À la fin du siècle et encore aujourd’hui, le mot « humanisme » est très fréquemment prononcé dans le milieu politique mais deux facteurs concourent à sa relativisation, voire son effacement, chez les intellectuels :
les évolutions de l’électroniqueet de l’informatique sont telles qu’on les rassemble généralement sous le qualificatif de « révolution », la révolution numérique. Certains considèrent que s’ouvre une nouvelle ère. Le débat sur l’humanisme se structure alors sur les promesses du transhumanismeet les inquiétudes du post-humanisme.
Au début du siècle, à l’image des arts plastiques, qui, avec le cubisme, l’abstractionou le dadaïsme, brisent tous les codes de la représentation, les sciences humaines tendent à établir des diagnostics de plus en plus incertains et déstabilisants, tant ils bousculent les critères d’appréciation de la pensée ayant cours jusqu’à présent.
En 1900 parait L’Interprétation du rêve, un ouvrage rédigé par un médecin autrichien, Sigmund Freud. À peine remarqué sur le coup, ce livre va marquer la fondation d’une nouvelle discipline, la psychanalyse. À l’opposé d’un Descartes, qui postulait qu’il n’y a pas de connaissance possible sans une solide conscience de soi, puis d’un Kant, qui surenchérissait en faisant primer le sujet sur l’objet, Freud affirme que le moi ne peut en aucune manière être considéré comme une instance totalement libre : il est au contraire pris en étau, « complexé », entre le « ça » (constitué de toutes sortes de pulsions, essentiellement d’ordre sexuel) et le « surmoi » (ensemble de règles morales édictées par la société). Freud précise que, dès lors que les humains se préoccupent avant tout de répondre aux attentes sociales, ils refoulent leurs pulsions dans l’inconscient, rendant celles-ci toujours plus pressantes. Continuellement en proie au conflit, ils en deviennent chroniquement malades, névrosés. Vu sous cet angle, « l’homme » perd l’autorité naturelle dont l’humanisme de la Renaissance puis celui des Lumières l’avaient d’office auréolé. Bien que contestée par quelques confrères de Freud, cette thèse fera un temps autorité.
En 1917, analysant le processus de recul des croyances religieuses au profit des explications scientifiques, le sociologue allemand Max Weberutilise une expression qui sera ensuite fréquemment commentée : « le désenchantement du monde ». Par cette formule, Weber signifie une rupture traumatisante avec un passé considéré comme harmonieux, une perte de sens et un déclin des valeurs, du fait que le processus de rationalisation dicté par l’économie tend de plus en plus à imposer ses exigences aux humains161.
Dans les pays anglo-saxons, ces positions sont qualifiées d’anti-humanisme(en), car déterministes, accordant aux individus une marge de liberté moindre. L’Allemand Walther Rathenau déplore que le perfectionnement exponentiel des machines et des outils ne s’accompagne pas d’un progrès spirituel162 et le Français Paul Valéry, commentant le bilan meurtrier de la Première Guerre mondiale et décrivant la science comme « atteinte mortellement dans ses ambitions morales » et « déshonorée par la cruauté de ses applications » évoque une « crise de l’esprit »163.
La question du machinisme
Durant les années 1920 et 1930, un grand nombre d’intellectuelsadoptent des positions critiques sur l’emprise des machines sur les humains, notamment dans le monde du travail164.
En 1921, Romain Rolland publie La révolte des machines ou La pensée déchaînée, le scénario d’un film de fiction s’inspirant du mythe de Prométhée165. Et recevant le Prix Nobel de littérature en 1927, Henri Bergson prononce ces mots : « On avait pu croire que les applications de la vapeur et de l’électricité, en diminuant les distances, amèneraient d’elles-mêmes un rapprochement moral entre les peuples : nous savons aujourd’hui qu’il n’en est rien »166. La même année, Henri Daniel-Rops estime que « le résultat du machinisme est de faire disparaître tout ce qui, en l’homme, indique l’originalité, constitue la marque de l’individu »167. En 1930, dans La Rançon du machinisme, Gina Lombroso voit dans l’industrialisation un symptôme de décadence intellectuelle et morale168. L’année suivante, Oswald Spengler écrit : « La mécanisation du monde est entrée dans une phase d’hyper tension périlleuse à l’extrême. […] Un monde artificiel pénètre un monde naturel et l’empoisonne. La civilisation est elle-même devenue une machine »169. Et dans De la destination de l’homme. Essai d’éthique paradoxale, Nicolas Berdiaev écrit : « si la technique témoigne de la force et de la victoire de l’homme, elle ne fait pas que le libérer, elle l’affaiblit et l’asservit aussi. Elle mécanise sa vie, la marquant de son empreinte. (…) La machine détruit l’intégralité et la coalescence anciennes de la vie humaine »170,171. Et deux ans plus tard, dans L’homme et la machine, il estime que « l’apparition de la machine et le rôle croissant de la technique représentent la plus grande révolution, voire la plus terrible de toute l’histoire humaine ».
En 1932, dans son récit d’anticipationLe meilleur des mondes, Aldous Huxley décrit un univers conditionné par les sciences génétiques. L’année suivante, Georges Duhamel écrit : « La machine manifeste et suppose non pas un accroissement presque illimité de la puissance humaine, mais bien plutôt une délégation ou un transfert de puissance. (…) Je ne vois pas, dans le machinisme, une cause, pour l’homme, de décadence, mais plutôt une chance de démission. (…) Nous demandons à nos machines de nous soulager non seulement des travaux physiques pénibles, mais encore d’un certain nombre de besognes intellectuelles. (…) Notre goût de la perfection, l’une de nos vertus éminentes, nous le reportons sur la machine »172. En 1934, dans Technique et civilisation, Lewis Mumford s’interroge : « En avançant trop vite et trop imprudemment dans le domaine des perfectionnements mécaniques, nous n’avons pas réussi à assimiler la machine et à l’adapter aux capacités et aux besoins humains »173. La même année, dans Réflexions sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, Simone Weildécrit le progrès technique comme n’apportant nullement le bien-être mais la misère physique et morale : « Le travail ne s’accomplit plus avec la conscience orgueilleuse qu’on est utile, mais avec le sentiment humiliant et angoissant de posséder un privilège octroyé par une passagère faveur du sort »174. En 1936, dans une scène célèbre de son film Les Temps modernes, montrant un ouvrier pris dans les engrenages d’une gigantesque machine, Charles Chaplin soulève la question de l’aliénation dans le travail mécanisé.
En 1919 et 1920, à la suite du traumatisme causé par la défaite de la Première Guerre mondiale et dans un contexte marqué par le développement du machinisme, l’historien et philologue allemand Werner Jaeger publie deux articles intitulés respectivement Der humanismus als Tradition und Erlebnis (« L’humanisme en tant que tradition et expérience ») et Humanismus und Jugendbildung(« Humanisme et formation de la jeunesse »). Ils conduisent, en 1921, le philosophe Eduard Spranger(de) à appeler de ses vœux un « troisième humanisme », dans la continuité d’un « premier humanisme », auquel il associe Érasme, et d’un « néo-humanisme » (Neuhumanismus) qui fait référence à Goethe et son cercle.
L’expression « troisième humanisme » apparaît chez Jaeger lui-même en 1934, un an après l’arrivée d’Hitler au pouvoir et deux ans avant qu’il n’émigre aux États-Unis pour fuir le nazisme. Ce concept « participe de l’idée d’un affaiblissement des « valeurs » traditionnelles, accablées par les maux d’une modernité aussi délétère que mal définie. Il se présente (…) comme une tentative de régénération (et) se traduit par l’abandon des certitudes positivisteset historicistes de la fin du xixe siècle. Il se veut une réponse au besoin de « réorientation » dont l’érudition de l’époque weimariennese fait l’écho. Il s’inscrit d’autre part dans la tradition de retour aux Grecs qui, depuis la Goethezeit, n’a cessé d’alimenter la vie intellectuelle allemande175. (…) Les recherches de Jaeger sont en effet guidées par une intuition : celle que l’homme grec fut toujours un homme politique, que l’éducation et la culture, en Grèce ancienne, furent inséparables de l’ordre communautaire de la polis. Aussi le nouvel humanisme ne peut-il être (…) qu’un humanisme politique, tourné vers l’action et ancré dans la vie de la cité »176.
Aux États-Unis, Jaeger poursuivra ses efforts pour promouvoir l’humanisme sur la base des valeurs de l’Antiquité grecque177 mais sans grand succès.
À peine revenus des camps de la mort, auxquels ils ont survécu, l’Italien Primo Leviet le Français Robert Antelme décrivent les souffrances qu’ils y ont enduré et les scènes d’horreur extrême dont ils ont été les témoins178. Des années plus tard, ils seront suivis par le Russe Alexandre Soljenitsyne, survivant des goulags soviétiques179.
Analysant en 2001 ces génocides et celui, plus récent, du Rwanda, l’essayiste Jean-Claude Guillebauds’interroge sur le sentiment d’impuissance qu’ils suscitent au sein des institutions internationales, sur la façon selon lui superficielle dont les médias en rendent compte ainsi que sur la légèreté avec laquelle, dans ce contexte, on ose encore parler d’humanisme :
« On pourrait s’indigner de l’incroyable légèreté du discours médiatique lorsqu’il évoque ce qu’on pourrait appeler « la nouvelle question humaniste ». Dans le babillage de l’époque, l’humanisme est parfois puérilement désigné comme une revendication gentille, désuète, attendrissante, moralisatrice, etc. La référence à l’homme est ingénument ravalée au rang d’un moralisme doux, d’une sorte de scoutisme que la technoscience n’admet plus qu’avec une indulgence agacée. Humanisme et universalisme sont perçus, au fond, comme les survivances respectables mais obsolètes d’un monde ancien180. »
En 1987, le philosophe Philippe Lacoue-Labarthe trouve cependant à dire que « le nazisme est un humanisme, en tant qu’il repose sur une détermination de l’humanitas à ses yeux plus puissante, c’est-à-dire plus effective, que toute autre. (…) Qu’il manque à ce sujet l’universalité, qui définit apparemment l’humanitas de l’humanisme au sens reçu, ne fait pas pour autant du nazisme un anti-humanisme »25.
Tout aussi virulent à l’encontre de ce qu’on appelle l’« humanisme » mais toutefois plus nuancé en ce qui concerne les accointances de celui-ci avec les systèmes totalitaires, Claude Lévi-Strauss tient ces propos en 1979 :
« Ce contre quoi je me suis insurgé, et dont je ressens profondément la nocivité, c’est cette espèce d’humanisme dévergondé issu, d’une part, de la tradition judéo-chrétienne, et, d’autre part, plus près de nous, de la Renaissance et du cartésianisme, qui fait de l’homme un maître, un seigneur absolu de la création. J’ai le sentiment que toutes les tragédies que nous avons vécues, d’abord avec le colonialisme, puis avec le fascisme, enfin les camps d’extermination, cela s’inscrit non en opposition ou en contradiction avec le prétendu humanisme sous la forme où nous le pratiquons depuis des siècles, mais dirais-je, presque dans son prolongement naturel, puisque c’est en quelque sorte d’une seule et même foulée que l’homme a commencé par tracer la frontière de ses droits entre lui-même et les autres espèces vivantes et s’est ensuite trouvé amené à reporter cette frontière au sein de l’espèce humaine, ses parents, certaines catégories reconnues seules véritablement humaines, d’autres catégories qui subissent alors une dégradation conçue sur le même modèle qui servait à discriminer entre espèces vivantes humaines et non humaines, véritable pêché originel qui pousse l’humanité à l’autodestruction181. »
Floraison d’humanismes
Tout au long du siècle, des penseurs d’opinions très différentes, voire divergentes, se réclament de l’humanisme182. Cette prolifération contribuant à rendre le concept d’humanisme de plus en plus flou, elle fait l’objet de multiples débats183, notamment lorsque « humanisme » et « politique » sont mis en corrélation. Ainsi, en 1947 Jacques Ellul écrit :
« Sitôt que l’on parle d’humanisme, on est en plein dans le domaine des malentendus. On pense à un certain sentimentalisme, à un certain respect de la personne humaine, qui n’est qu’une faiblesse et un luxe bourgeois et l’on ne peut s’empêcher de penser qu’un écrivain communiste (…) avait en partie raison quand il écrivait : « la dignité humaine, les droits de l’homme, le respect de la personne, etc, on en a les oreilles rebattues ». Cette réaction est dure, mais je crois qu’elle est légitime en face de tout ce que l’on a appelé « humanisme ». Et, en particulier, l’un des malentendus qu’il faudrait dissiper, c’est (l’idée) que la démocratie serait humaniste et respecterait l’homme et (que) la dictature serait anti-humaniste et mépriserait l’homme. Tout notre temps est absolument subjugué par cette erreur, par cette antinomie au sujet de l’homme, entre démocratie et dictature184. »
L’humanisme chrétien
L’expression « humanisme chrétien » date des années 1930185. Par la suite, certains y voient un phénomène né avec les premiers « intellectuels » chrétiens (Saint Justin, Origène, Clément d’Alexandrie…)186. De façon générale, l’expression est utilisée pour différencier les intellectuels chrétiens du xxe siècle de ceux qui se revendiquent athées.
Il faut rappeler que l’humanisme de la Renaissance a été porté par des penseurs qui étaient « chrétiens » non pas forcément par conversion mais parce que cela allait à l’époque de soi : au sortir du Moyen Âge, il était inconcevable de s’éloigner de la doxa de l’Église sous peine d’être frappé d’hérésie. Et c’est parce qu’au fil du temps les intellectuels se sont affranchis de la tutelle morale de l’Église au point d’adopter des postures ouvertement agnostiques, voire – après Nietzsche – athées, que certains d’entre eux, invoquant leur foi chrétienne, réagissent en manifestant leur volonté d’insuffler une éthique qui sera en définitive qualifiée d’humanisme chrétien.
En France, c’est le cas notamment de Charles Péguy187, Léon Bloy, Georges Bernanos et Emmanuel Mounier ainsi que Jacques Maritain, le seul d’entre eux à prôner, en 1936, un humanisme d’un nouveau type qu’il qualifie d’intégral188, qu’il place sous le signe de la transcendance et de la « dignité transcendante de l’homme » et qu’il oppose à « un humanisme anthropocentrique refermé sur lui-même et excluant Dieu »38. Un certain nombre d’écrivains sont souvent rangés dans la catégorie « humanisme chrétien », dont principalement Julien Green38.
A la fin du siècle, le pape Jean-Paul II se positionne sur la question de l’humanisme en développant une critique de l’utilitarisme et du productivisme : « L’utilitarisme est une civilisation de la production et de la jouissance, une civilisation des “choses” et non des “personnes”, une civilisation dans laquelle les personnes sont utilisées comme des choses »191.
L’humanisme athée
On regroupe généralement sous l’étiquette « humanisme athée » les penseurs qui, dans le sillage de Marx, Nietzsche et Freud(surnommés maîtres du soupçonpar Paul Ricœur) contestent catégoriquement non seulement la religion mais la foi en Dieu.
Théologien catholique, Henri de Lubac déplore en 1944 ce qu’il appelle « le drame de l’humanisme athée », dont il situe les origines au xixe siècle, dans les prises de positions de Feuerbach, Saint-Simon et Comte192. Bien qu’occupant une place majeure dans le clergé (il est cardinal), de Lubac ne taxe pas ceux-ci d’anti-humanistes et ne porte pas sur eux un jugement normatif. Il ne peut d’ailleurs les condamner car l’Église n’exerce plus sur les consciences l’autorité dont elle disposait jusqu’alors. Il considère en revanche l’athéisme comme un fait social, une donnée objective avec laquelle les chrétiens (et pas seulement le clergé) doivent désormais composer. Il prend au sérieux les revendications des athées au libre arbitre et trouve digne et courageuse la position de Dostoïevski quand il pose la question : « mais alors, que deviendra l’homme, sans Dieu et sans immortalité ? Tout est permis, par conséquent, tout est licite ? »193. Cette position traduit selon lui l’angoisse et le doute que le Christ lui-même a exprimé peu avant de mourir : « Mon dieu, pourquoi m’as tu abandonné ? » (Mc 15,34 et Mt 27,46).
En France, Jean-Paul Sartre et Albert Camus sont eux aussi considérés fréquemment comme des humanistes athées197. Certains, toutefois, font remarquer que si l’athée est « celui pour qui la question de Dieu ne se pose pas », cet adjectif ne s’applique pas à Camus : non seulement celui-ci n’est pas « indifférent à la question de Dieu » mais il s’efforce de se confronter à elle. Il est donc préférable de qualifier Camus d’agnostique198.
Dans le sillage de l’idéologie scientiste du xixe siècle, quelques intellectuels européens, aussi bien chez les athées que chez les chrétiens, s’efforcent dans les années 1950 de promouvoir un humanisme qui serait basé sur les avancées de la science, notamment les théories de l’évolution, mais formulé dans une rhétorique religieuse assumée. C’est le cas principalement du français Teilhard de Chardin et de l’anglais Julian Huxley, le second traduisant les ouvrages du premier en anglais.
Dans Le Phénomène humain, paru juste après sa mort en 1955 et qu’il qualifie lui-même d’« introduction à une explication du monde », Teilhard établit une relation entre ses recherches en paléontologie et ses positions en tant que théologien. Selon lui, l’univers est en constante évolution vers des degrés toujours plus hauts de complexité et de conscience. Et il appelle « point Oméga » l’aboutissement de cette évolution. Relatant en 1956 l’approche de Teilhard (mais aussi celles d’Huxley et du zoologiste Albert Vandel), l’essayiste André Niel parle d’« humanisme cosmologique »199.
En 1957, Huxley, qui a fondé cinq ans plus tôt l’Union internationale humaniste et éthique et qui est biologiste, forge l’expression « humanisme évolutionnaire » et reprend le mot « transhumanisme »200, cette fois pour lui donner le sens qu’on lui donne aujourd’hui : pour promouvoir l’idée que les humains sont désormais capables de dépasser leur condition grâce à la science et aux moyens techniques. Tel Auguste Comte qui voulait ériger le positivisme en église (lire infra), et bien que se réclamant rationalistecomme lui, Huxley souhaiterait que l’humanisme devienne une religion, une « religion de l’homme »201,202,14.
En 1963, Bernard Charbonneauqualifie Teilhard et Huxley de « prophètes d’un âge totalitaire »203.
Quand sont écrasés les trois grands régimes fascistes mondiaux (en Allemagne, en Italie et au Japon), s’ouvre une vaste lutte d’influence (dite Guerre froide) entre les deux grands « blocs », l’URSS et les États-Unis. Les révélations au sujet des massacres en URSS posent la question : humanisme et marxisme sont-ils compatibles ? En France, Maurice Merleau-Ponty ouvre le débat en 1947 avec Humanisme et terreur207, une compilation d’articles parus l’année précédente dans la revue Les Temps Modernes et qui, bien que remettant en cause les allégations de Koestler208, ont alors suscité de violentes polémiques dans les milieux intellectuels, notamment cette phrase : « Il n’y a que des violences, et la violence révolutionnaire doit être préférée parce qu’elle a un avenir d’humanisme […] Nous n’avons pas le choix entre la pureté et la violence, mais entre différentes sortes de violences »209. Cinq ans plus tard, le philosophe rompt finalement avec le marxisme et avec Sartre210, selon qui « le marxisme est l’horizon indépassable de notre temps »211.
Quelques intellectuels communistes défendent le concept d’humanisme-marxiste en évitant de remettre en cause la doctrine marxiste. C’est le cas notamment, en 1957, de Roger Garaudy212, membre actif du PCF, qui, après avoir été ouvertement stalinien, s’ouvre aux théories d’Antonio Gramsci (auxquelles s’oppose alors Althusser) et « qui promeut un matérialisme dans lequel l’homme, en étant ouvert au dialogue avec d’autres visions du monde, notamment chrétiennes, peut se créer lui-même »213.
C’est également le cas, en 1958, de la trostkyste américaine Raya Dunayevskaya214, qui combat le stalinisme sans mettre en cause le léninisme215, et celui, en 1968, d’Adam Schaff, qui représente la fraction la plus conservatrice du communisme polonais et se réclame lui aussi de l’humanisme205,216.
En 2018, le sociologue et philosophe marxiste Michael Löwyvoit en Ernest Mandel (1923-1995) un « humaniste révolutionnaire », au motif qu’il considérait que « le capitalisme est inhumain » et que « l’avenir de l’humanité dépend directement de la lutte de classe des opprimés et des exploités »217.
La psychologie humaniste
L’idéal humaniste gagne également certains secteurs des sciences humaines, notamment la psychologie aux États-Unis. En 1943, l’Américain Abraham Maslowpublie son premier ouvrage218. Son impact est tel que son auteur est considéré dans son pays comme l’initiateur d’un nouveau courant, la psychologie humaniste. Sa théorie de la motivation et du besoin (connue sous le nom de pyramide des besoins de Maslow) postule que le comportement des hommes est régi par la satisfaction de différents besoins : viennent d’abord les besoins physiologiques élémentaires, puis les besoins de sécurité ; ensuite le besoin d’être aimé des autres puis celui d’être reconnu par eux. Chaque besoin assouvi conduit les humains à aspirer à la satisfaction d’un besoin supérieur. Au sommet de la pyramide vient le besoin d’accomplissement de soi.
La psychologie humaniste introduit le postulat de l’autodétermination et s’appuie sur l’expérience consciente du patient : il s’agit de développer chez lui la capacité de faire des choix personnels (volontarisme). Selon les théoriciens de cette approche (outre Maslow, citons Carl Rogers), l’être humain est fondamentalement bon : s’il suit sa propre expérience et se débarrasse des conditionnements qui limitent sa liberté, il évoluera toujours positivement.
À la suite des tragédies de la Seconde Guerre, le courant de la psychologie humaniste est considéré comme exagérément optimiste en Europe. Introduit en France dans les années 1970 par Anne Ancelin Schützenberger219, il reste relativement peu répandu.
Dans leur Dialectique de la Raison, publiée en 1947 (mais seulement traduite en France en 1974222), Theodor W. Adorno et Max Horkheimer se demandent comment il est possible que la raison ait été défaillante au point de ne pas pouvoir anticiper la barbarie puis empêcher qu’elle perdure. Selon eux, une forme d’abêtissement général est à l’œuvre du fait que le monde occidental est structuré par l’industrie culturelle, la publicité et le marketing, qui constituent une forme difficilement perceptible de propagande du capitalisme. Tout cela, donc, non seulement ne provoque pas l’émancipation des individus mais au contraire les assujettit à un fort désir de consommer et génère une uniformisation des modes de vie, un nivellement des consciences. À force de matraquage médiatique, le capitalisme impose dans les consciences une conception du monde qui contribue, disent les philosophes marxistes, à imposer de facto un « anti-humanisme » : toute tentative pour penser et instituer une nouvelle forme d’humanisme s’annonce donc a priori ardue.
Certains critiques estiment toutefois que, contrairement à ce que peut induire a priori le discours d’Adorno, il faut voir en celui-ci un humaniste. Car s’il se livre à une critique radicale de la « vie fausse », cette critique permet en définitive d’envisager en creux la conception d’une « vie juste »223.
En marge du débat sur les effets du progrès techniquesur les humains, mais alors qu’aux lendemains de la tragédie de la Guerre bon nombre d’intellectuels se demandent si le terme « humanisme » a encore un sens, Sartre jette en 1944, dans L’Être et le Néant224, les bases de sa doctrine : l’existentialisme.
Aux marxistes, qui n’y voient qu’une « philosophe de l’impuissance », bourgeoise, contemplative et individualiste, il répond deux ans plus tard, lors d’une conférence à la Sorbonne. Selon lui, malgré le poids des déterminations économiques et sociales identifiées par Marx, mais dès lors qu’il est capable de les identifier, l’homme peut se réaliser, s’épanouir : l’existentialisme est d’autant plus un humanisme que l’homme est athée et que, unique créateur de ses valeurs, il assume courageusement sa solitude et ses responsabilités225. Il existe(matériellement) avant d’être (c’est-à-dire avant de décider d’être ceci ou cela) : « l’existence précède l’essence ».
En 1947, soit un an après la conférence de Sartre, Heidegger est à son tour interrogé : le mot « humanisme » est-il encore approprié ? Dans la Lettre sur l’humanisme, un texte assez court mais dense, le philosophe définit l’humanisme comme « le souci de veiller pensivement à ce que l’homme soit humain et non inhumain, privé de son humanité »226 et il estime que donner du sens à ce mot revient à questionner « l’essence de l’homme » en écartant la définition traditionnelle de « l’homme animal raisonnable ». Considérant que seul un homme est capable d’élaborer une pensée abstraite et que cette capacité tient au caractère subtil, complexe, de son langage, il pense toutefois que les humains auraient tort de se revendiquer « humanistes » de façon inconsidérée, dès lors que, de plus en plus dominés par la technique, ils tendent à devenir étrangers à eux-mêmes. Il conclut qu’on ne peut prendre position sur l’humanisme qu’en s’attelant à cette question.
Heidegger est généralement considéré comme un « anti-humaniste ». L’essayiste Jean-Claude Guillebaud estime que les choses sont plus complexes :
« Pour Heidegger, le désenchantement du monde, son asservissement par la technique, l’assujettissement de l’humanitas à la rationalité marchande ne sont pas des atteintes portées à l’humanisme, mais l’aboutissement de l’humanisme lui-même. C’est-à-dire du projet d’artificialisationcomplète de la nature par la culture humaine, d’un arraisonnement du naturel par le culturel, d’une volonté de maîtrise absolue du réel par la rationalité humaine. (…) Pour Heidegger, la science, la technique, la technoscience, ne constituent en rien un naufrage de l’humanisme traditionnel, mais tout au contraire son étrange triomphe227. »
Guillebaud cite alors le philosophe et juriste Bernard Edelman : « Par là même, l’humanisme révèle sa véritable nature : une alliance coupable de la philosophie et de la science, qui a réduit la philosophie à une pensée technique »228. Puis il poursuit son argumentation :
« L’humanisme n’aurait eu d’autre fin que d’asservir la nature à la rationalité et celle-ci à la technique. Toute l’œuvre de Heidegger peut s’interpréter comme une critique en règle de cet humanisme dévoué à la « facticité », tournant dramatiquement le dos à la nature, désenchantant le monde et finissant par priver peu à peu l’être humain de tout principe d’humanité, de toute humanitas229. »
« L’Assemblée générale proclame la présente Déclaration universelle des droits de l’homme comme l’idéal commun à atteindre par tous les peuples et toutes les nations afin que tous les individus et tous les organes de la société, ayant cette Déclaration constamment à l’esprit, s’efforcent, par l’enseignement et l’éducation, de développer le respect de ces droits et libertés et d’en assurer, par des mesures progressives d’ordre national et international, la reconnaissance et l’application universelles et effectives, tant parmi les populations des Etats Membres eux-mêmes que parmi celles des territoires placés sous leur juridiction. »
En marge de ces événements, quelques intellectuels ouvrent un nouveau volet de la réflexion sur l’humain : la technocritique. Certains d’entre eux continuent de questionner le machinisme (c’est le cas notamment du sociologue Georges Friedmann232 et de l’écrivain Georges Bernanos233) mais la plupart tentent d’analyser la rationalité qui sous-tend non seulement la fabrication des machines mais aussi l’organisation du travail et la vie quotidienne. Ils ne parlent plus alors des techniques mais de latechnique, comme on parle de la science.
En 1946, dans La perfection de la technique, Friedrich Georg Jüngerconsidère que ce qu’on appelle « le progrès technique » correspond à un déficit spirituel, que la raison cherche à dissimuler234. En 1948, dans La mécanisation au pouvoir, Siegfried Giedion écrit : « Les relations entre l’homme et son environnement sont en perpétuel changement, d’une génération à l’autre, d’une année à l’autre, d’un instant à l’autre. Notre époque réclame un type d’homme capable de faire renaître l’harmonie entre le monde intérieur et la réalité extérieure »235.
« En dépit de toutes les perversions qu’a pu couvrir le discours humaniste, c’est à un humanisme concretqu’Orwell nous demande de nous tenir, même s’il faut sans cesse le reformuler à cause de ses compromissions historiques. S’il y a un espoir, il n’est pas dans telle catégorie sociale ou idéalisée, dans tel groupe humain sacralisé, encore moins dans tel individu charismatique. S’il y a un espoir, il ne peut être qu’en l’homme et en tout homme, à commencer par soi-même, et par ceux que l’on côtoie ici et maintenant. Parce que la menace antihumaniste est présente au cœur de l’être humain, c’est au cœur de chaque homme que se joue la lutte pour l’humanité. Personne n’a le droit de se reposer sur l’idée qu’il y aura toujours des êtres d’exception, des héros, des « hommes dignes de ce nom » chargés à sa place de perpétuer la dignité de l’espèce237. »
En 1950, le mathématicien américain Norbert Wiener, souvent présenté comme un humaniste238, publie un livre intitulé The Human Use of Human Beings (« l’usage humain des êtres humains ») dans lequel il envisage la « machine à décision »239.
En 1952, dans La Technique ou l’enjeu du siècle, Jacques Ellulpartage en grande partie ce pessimisme car il estime qu’en l’état des choses, la technique est devenue un processus autonome, qui se développe par lui-même, sans véritable contrôle d’ensemble de la part des humains (au sens du dicton populaire « on n’arrête pas le progrès »). Pour enrayer ce processus, explique-t-il, il faudrait d’abord que les humains soient à même de différencier « la technique » de « la machine » (la seconde n’étant à ses yeux qu’un aspect superficiel de la première).
Ellul insiste sur le fait que « le phénomène technique est la préoccupation de l’immense majorité des hommes de notre temps, de rechercher en toutes choses la méthode absolument la plus efficace ». Et il ajoute que, s’ils tiennent à conserver un minimum de liberté, c’est à la prise de conscience de cette addiction à l’impératif d’efficacité que les humains doivent s’atteler240.
En 1956, dans L’Obsolescence de l’homme (qui ne sera traduit en France qu’en 2002242), Günther Anders qualifie de « décalage prométhéen » l’écart entre les réalisations techniques de l’homme et ses capacités morales puis de « honte prométhéenne » le sentiment de répulsion qu’il éprouve lorsqu’il est contraint de prendre conscience de cet écart243.
Les trois temps de l’humanisme
En 1956, dans un document produit pour l’Unesco et resté longtemps inédit244,245, l’anthropologue Claude Lévi-Strauss identifie trois phases de l’humanisme : l’humanisme aristocratique (qui correspond à l’époque de la Renaissance, au cours de laquelle on a redécouvert les textes de l’Antiquité classique), l’humanisme exotique (correspondant au xixe siècle, quand l’Occident s’est ouvert aux civilisations de l’Orient et de l’Extrême-Orient) et l’humanisme démocratique, plus récent, grâce à l’apport de l’ethnologie, qui « fait appel à la totalité des sociétés humaines pour élaborer une connaissance globale de l’homme. » Lévi-Strauss précise :
« L’ethnologie et l’histoire nous mettent en présence d’une évolution du même type. (…). L’histoire, comme l’ethnologie, étudie des sociétés qui sont autres que celle où nous vivons. Elles cherchent toutes deux à élargir une expérience particulière aux dimensions d’une expérience générale, ou plus générale, qui devient ainsi accessible à des hommes d’un autre pays ou d’un autre temps. Comme l’histoire, l’ethnologie s’inscrit donc dans la tradition humaniste. (…) L’ethnologie fait appel à la totalité des sociétés humaines pour élaborer une connaissance globale de l’homme. (…) Elle opère simultanément en surface et en profondeur. »
En 1958, le philosophe Gilbert Simondon traite à son tour de la question technique246 mais plaide en faveur d’un nouvel humanisme qui, comme celui des Lumières, serait construit sur l’esprit encyclopédique mais qui, en revanche, « ne régresserait pas au statut d’idéologie européo-centriste et scientiste, (ladite idéologie) ayant pour nom « universalisme de la raison humaine » »247.
Selon Jean-Hugues Barthélémy, exégète de la pensée de Simondon, l’encyclopédisme tel que celui-ci l’envisage « n’a pas vocation à être un système du savoir absolu et définitif », comme cela a été le cas à partir des Lumières, il doit au contraire être « automodifiable ». Simondon appelle de ses vœux un « humanisme difficile », en opposition à l’« humanisme facile » (idéologique et figé) hérité des Lumières248 : « l’humanisme ne peut jamais être une doctrine ni même une attitude qui pourrait se définir une fois pour toutes ; chaque époque doit découvrir son humanisme, en l’orientant vers le danger principal d’aliénation »249.
« Stimulante et originale à plus d’un titre, elle repose néanmoins sur un postulat critiquable : une adhésion de principe à la logique technoscientifique. Pour lui, indiscutablement, la technique est « bonne » en soi puisqu’elle n’est jamais qu’une cristallisation de la pensée humaine. Elle est d’ailleurs, par essence, universaliste et libératrice. C’est elle qui fait éclater les particularismes, les préjugés ou les intolérances du passé. C’est elle qui remet en question les symbolisations normatives d’autrefois et libère l’homme contemporain des anciennes sujétions ou assignations collectives. (…) La démarche est à l’opposé de celle d’Ellul. Là où Ellul prône la résistance critique, Simondon propose au bout du compte le ralliement et même le syncrétisme. Là où Ellul se méfie du « processus sans sujet » incarné par la technoscience, Simondon fait l’éloge de l’universalismetechnoscientifique. Il l’oppose même à l’archaïsme et au particularisme de la culture traditionnelle. Là où Ellul campe sur un principe de transcendance, Simondon sacrifie à un relativisme intégral. Il assigne ipso facto à la philosophie un devoir d’adaptation, plus raisonnable à ses yeux que toute démarche critique ou toute résistance cambrée250. »
Guillebaud avance que l’« humanisme difficile » de Simondon prépare le terrain du transhumanisme (lire infra).
En 1964, dans L’Homme unidimensionnel, le philosophe allemand Herbert Marcuse décrit une humanité entièrement façonnée par les médias ainsi que les techniques de publicité et de marketing, qui créent de faux besoins. Et selon le Canadien Marshall McLuhan, les médias – par leur nature même – façonnent les individus bien plus que les messages qu’ils véhiculent : ils entretiennent l’illusion d’une prise directe avec le réel. En 1966, dans Sept études sur l’homme et la technique, Georges Friedmannestime que la technique tend à devenir un milieu environnant, en lieu et place du milieu naturel, sans même que les humains ne s’en émeuvent251. De même en 1967, dans La Société du spectacle, Guy Debord décrit les humains sous l’emprise des marchandises mais inconscients de cette aliénation. Et les débats de société lui paraissent extrêmement superficiels, glissant sur les événements sans jamais en saisir le sens profond : le monde n’est plus pour lui qu’un « spectacle »252.
« Si la poursuite du développement demande des techniciens de plus en plus nombreux, elle exige encore plus des sages de réflexion profonde, à la recherche d’un humanisme nouveau, qui permette à l’homme moderne de se retrouver lui-même, en assumant les valeurs supérieures d’amour, d’amitié, de prière et de contemplation. Ainsi pourra s’accomplir en plénitude le vrai développement, qui est le passage, pour chacun et pour tous, de conditions moins humaines à des conditions plus humaines.253. »
Et en 1968, le psychanalystegermano-américain Erich Frommestime lui aussi qu’il est souhaitable et possible d’humaniser la technique254.
En 1969 et 1973, le Français Alain Touraineet l’Américain Daniel Bell introduisent l’idée que les humains évoluent dans une « société post-industrielle » : les éléments matériels (matières premières et machines) qui caractérisaient la société industriellesont désormais subordonnés à un grand nombre d’éléments immatériels (connaissance et information)255. Entretemps, dans La Société de consommation, Jean Baudrillard estime que les relations sociales sont à présent totalement structurées par la consommation.
En 1977, dans Le système technicien, Jacques Ellul avance la thèse que la technique forme désormais un système englobant. Lentement mais sûrement, les humains sont tenus de s’y conformer :
« Toute la formation intellectuelle prépare à entrer de façon positive et efficace dans le monde technicien. Celui-ci est tellement devenu un milieu que c’est à ce milieu que l’on adapte la culture, les méthodes, les connaissances des jeunes. L’humanisme est dépassé au profit de la formation scientifique et technique parce que le milieu dans lequel l’écolier plongera n’est pas d’abord un milieu humain mais un milieu technicien. (…) Lorsqu’on recherche un humanisme pour la société technicienne, c’est toujours sur la base que l’homme en question est avant tout fait pour la technique, le seul grand problème est celui de l’adaptation256. »
En 1988, dans Le bluff technologique, Ellul emprunte à Sartre et Jacquard l’expression « inventer l’homme »257. Mais, faisant référence à la montée de l’anthropotechnie, et comme Jacquard, c’est pour montrer aussitôt le caractère désespéré de cette formule258. Et devant l’émergence de ce que l’on appellera bientôt la « révolution numérique », il lâche ses mots : « le système technicien, exalté par la puissance informatique, a échappé définitivement à la volonté directionnelle de l’homme »259.
« La mort de l’homme »
En 1966, deux intellectuels français émettent des critiques radicales à l’encontre du concept d’humanisme, mais selon des points de vue très différents.
Guy Debordestime que, complètement immergés dans la société de consommation et l’univers des mass media, les humains sont façonnés par eux, « aliénés », au point de devenir des « barbares » :
« Le barbare n’est plus au bout de la Terre, il est là, constitué en barbare précisément par sa participation obligée à la même consommation hiérarchisée. L’humanisme qui couvre cela est le contraire de l’homme, la négation de son activité et de son désir ; c’est l’humanisme de la marchandise, la bienveillance de la marchandise pour l’homme qu’elle parasite. Pour ceux qui réduisent les hommes aux objets, les objets paraissent avoir toutes les qualités humaines, et les manifestations humaines réelles se changent en inconscience animale260. »
Debord développera cette idée l’année suivante dans son livre La société du Spectacle. Le terme « spectacle » ne signifiant pas « un ensemble d’images mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images »261.
Michel Foucault, se référant au concept nietzschéen de « la mort de Dieu », annonce « la mort de l’homme », en tant qu’objet d’étude262 :
« Plus que la mort de Dieu (ou plutôt « dans le sillage de cette mort », selon une corrélation profonde avec elle, ce qu’annonce la pensée de Nietzsche), c’est la fin de son meurtrier ; (…) c’est l’identité du Retour du Même et de l’absolue dispersion de l’homme. (…) L’homme est une invention dont l’archéologie de notre pensée montre aisément la date récente. Et peut-être la fin prochaine263. »
Et considérant que toutes les positions morales et culturelles se valent, sont « relatives », il tourne le terme « humanisme » en dérision :
« On croit que l’humanisme est une notion très ancienne qui remonte à Montaigne et bien au-delà. (…) on s’imagine volontiers que l’humanisme a toujours été la grande constante de la culture occidentale. Ainsi, ce qui distinguerait cette culture des autres, des cultures orientales ou islamiques par exemple, ce serait l’humanisme. On s’émeut quand on reconnaît des traces de cet humanisme ailleurs, chez un auteur chinois ou arabe, et on a l’impression alors de communiquer avec l’universalité du genre humain.
Or non seulement l’humanisme n’existe pas dans les autres cultures, mais il est probablement dans la nôtre de l’ordre du mirage.
Dans l’enseignement secondaire, on apprend que le xvie siècle a été l’âge de l’humanisme, que le classicisme a développé les grands thèmes de la nature humaine, que le xviiie siècle a créé les sciences positives et que nous en sommes arrivés enfin à connaître l’homme de façon positive, scientifique et rationnelle avec la biologie, la psychologie et la sociologie. Nous imaginons à la fois que l’humanisme a été la grande force qui animait notre développement historique et qu’il est finalement la récompense de ce développement, bref, qu’il en est le principe et la fin. Ce qui nous émerveille dans notre culture actuelle, c’est qu’elle puisse avoir le souci de l’humain. Et si l’on parle de la barbarie contemporaine, c’est dans la mesure où les machines, ou certaines institutions nous apparaissent comme non humaines.
Tout cela est de l’ordre de l’illusion. Premièrement, le mouvement humaniste date de la fin du xixe siècle. Deuxièmement, quand on regarde d’un peu plus près les cultures des xvie, xviie et xviiie siècles, on s’aperçoit que l’homme n’y tient littéralement aucune place. La culture est alors occupée par Dieu, par le monde, par la ressemblance des choses, par les lois de l’espace, certainement aussi par le corps, par les passions, par l’imagination. Mais l’homme lui-même en est tout à fait absent264. »
L’humanisme contre l’homme
Un an après les positions de Debord et Foucault, Ellul se livre à une critique plus radicale encore :
« Comment nier que l’humanisme a toujours été la grande pensée bourgeoise ? Voyez comme il s’est répandu partout. (…) Maintenant, il est un rassurant thème de devoirs d’école primaire et tout le monde en veut : il s’agit de prouver que le marxisme est un humanisme, que Teilhard est humaniste, que le christianisme est un humanisme, etc. Mais il est toujours le même. Il a toujours été ce mélange de pseudo-connaissance de l’homme au travers desdites humanités, de sentimentalité pleurnicharde sur la grandeur de l’homme, son passé, son avenir, ses pompes et ses œuvres, et sa projection dans l’absolu de l’Homme, titularisé. L’humanisme n’est rien de plus qu’une théorie sur l’homme.
Depuis longtemps, on a dénoncé le fait que, grâce à cette théorie, grâce à cette exaltation, on pouvait éviter de considérer la réalité, le concret, la situation vécue de l’homme. (…) L’humanisme est la plus grande parade contre la réalité. Il s’est présenté comme doctrine pour éviter que, du premier coup, chacun ne voie qu’il était simple discours et idéologie ». (…) Doctrine, certes, mais toujours exposée dans les larmoiements. (…) Le tremolo est la marque du sérieux. Il fallait à tout prix empêcher d’apercevoir le hiatus entre « l’Homme de l’humanisme » et « les hommes menant leur vie concrète ». C’est la sentimentalité qui comble le hiatus. (…) L’unité de l’objet et du sujet se reconstitue dans la sentimentalité. On ne peut plus à ce moment accuser l’humanisme de manquer de sérieux ou de concret. Cette comédie du sérieux à l’état pur fut encore une invention géniale du bourgeois. elle révèle par son existence même ce qu’elle prétendait cacher, à savoir l’éclatement de l’homme, dénoncé par Marx, et non seulement voilé mais provoqué par l’humanisme lui-même. Il suffit de poser la question de la coïncidence historique : « Quand donc l’humanisme fut-il clamé et proclamé ? ». Exactement au moment où, dans ses racines, l’homme commençait à être mis en question par l’homme265. »
Pour expliquer comment et pourquoi « l’humanisme est la plus grande parade contre la réalité », Ellul précise :
« Se justifier soi-mêmeest la plus grande entreprise de l’homme, avec l’esprit de puissance, ou plutôt après la manifestation de cet esprit. Car l’homme ayant agi ou vécu selon cet esprit ne peut pas se contenter d’avoir réalisé sa puissance, il faut encore qu’il se proclame juste266. »
Globalement, il approuve l’analyse de Debord267 mais très partiellement seulement celle de Foucault :
« (Son) radical rejet de presque tout ce qui constitue l’humanisme est bon. Mais (il) a tort de ne pas voir que, ce faisant, il poursuit exactement ce que l’humanisme avait commencé. L’humanisme, système de liquidation de l’homme dans sa période primaire de son asservissement, de sa mise en question, œuvres l’un et l’autre du bourgeois, n’est plus aujourd’hui pour continuer la persévérante néantisation de l’homme. Les moyens (techniques) dépassent infiniment l’idéologie (de l’humanisme). Il fallait mettre en accord la pensée avec la situation268. »
Ellul reproche ainsi à Foucault d’exprimer une « fausse contradiction »269 : compte tenu de la prégnance de l’idéologie technicienne, il est non seulement inutile de critiquer l’humanisme sans critiquer l’idéologie technicienne mais critiquer le premier sans critiquer la seconde revient à alimenter soi-même la seconde.
« Renaissance de l’humanisme » ?
S’opposant à ces prises de positions pour le moins négatives, certains veulent croire en la pertinence du concept d’humanisme. C’est entre autres le cas de deux scientifiques français : l’ethnologueClaude Levi-Strauss, en 1973, puis le neurobiologisteJean-Pierre Changeux, dix ans plus tard.
Tous deux se disent humanistes mais leurs points de vue sont radicalement différents.
Humanisme et ethnologie
Selon Claude Levi-Strauss, « après l’humanisme aristocratique de la Renaissance et l’humanisme bourgeois du xixe siècle », l’ethnologie pourrait marquer l’avènement d’un nouvel humanisme :
« Quand les hommes de la fin du Moyen-Âge et de la Renaissance ont redécouvert l’antiquité gréco-romaine,(…) (ils) reconnaissai(en)t qu’aucune civilisation ne peut se penser elle-même, si elle ne dispose pas de quelques autres pour servir de terme de comparaison. La Renaissance a retrouvé, dans la littérature ancienne (…) le moyen de mettre sa propre culture en perspective, en confrontant les conceptions contemporaines à celles d’autres temps et d’autres lieux. (…) Aux xviie et xixe siècles, l’humanisme s’élargit avec le progrès de l’exploration géographique. (…) En s’intéressant aujourd’hui aux dernières civilisations encore dédaignées – les sociétés dites primitives – l’ethnologie fait parcourir à l’humanisme sa troisième étape. Sans doute sera-t-elle aussi la dernière, puisqu’après cela, l’homme n’aura plus rien à découvrir de lui-même, au moins en extension270,271. »
« L’homme neuronal »
En 1983 parait en FranceL’homme neuronal, de Jean-Pierre Changeux, un ouvrage qui déclenche un grand nombre de réactions, notamment chez les philosophes et les psychanalystes. Portée par les avancées dans le domaine des neurosciences, la thèse développée est biologisante272 : elle s’appuie sur un modèle théorique scientisteet réductionniste qui consiste à appliquer aux phénomènes sociaux une grille de lecture inspirée des sciences de la vie ; autrement dit selon lequel les conditions naturelles et organiques de la vie et de son évolution (gènes, hormones, neurotransmetteurs, lois néodarwiniennes) constituent la base non seulement de la réalité physique des hommes mais aussi de ce qui autrefois était considéré comme « spirituel » : « le clivage entre activités mentales et neuronales ne se justifie pas. Désormais à quoi bon parler d’esprit ? », résume Changeux. En cela, sa conception de l’homme est l’héritière de la philosophie mécaniste de Descartes (théorie de l’homme-machine, début du xviie siècle) et de La Mettrie (début du xviiie siècle), du transformisme de Lamarck (fin du xviiie siècle) et du darwinisme social d’Herbert Spencer(fin du xixe siècle) ; et plus récemment de la psychologie évolutionniste (début du xxe siècle) et de la sociobiologie (seconde moitié du xxe siècle)273.
Mais Changeux se défend d’être déterministe, plus précisément adaptationniste. Selon lui, le cerveau peut faire preuve d’une plasticité étonnante et, du moment que l’on prend conscience de son fonctionnement, on peut agir sur soi-même, développer les capacités que l’on souhaite et modifier dans une certaine mesure ses comportements. L’homme est « programmé pour être libre ». À la question, « la biologie est-elle un humanisme ? », le sociologue Sébastien Lemerle répond qu’il y voit surtout le signe d’un conformisme extrême au libéralisme économique : « Dès le début des années 1980, Robert Castelobservait que la passion pour la biologie pouvait être une arme de guerre contre la pensée critique. Dans les entreprises, racontait-il, quand les salariés se plaignent d’être dépossédés de leur autonomie par une nouvelle organisation du travail, l’une des réponses des services de gestion du personnel consiste à reformuler les problèmes dans un registre « psychologisant » fondé en partie sur la biologie : « Votre mal-être est un problème relationnel, on peut y remédier en vous aidant à vous reprogrammer et en éliminant les pensées et comportements négatifs », grâce à la programmation neuro-linguistiquepar exemple. Pour le biologisme, plutôt que de changer le monde, il vaut mieux s’y adapter »274.
Toutefois, le mathématicien Jean-Pierre Kahane voit dans la pensée de Changeux la marque d’un « vibrant humanisme »275. De même, les organisateurs du Prix Balzan (prix littéraire pour les neurosciences cognitives) estiment qu’il est « un maître à penser, un humaniste du xxie siècle »276. La journaliste Caroline Delageconsidère qu’il est « le parfait exemple de ce que l’on appelait autrefois un humaniste : un homme pétri d’histoire, de sciences et de beaux-arts »277. Changeux lui-même déclare « désirer faire passer un message humaniste »278.
L’humanisme et les « -ismes »
À partir des années 1970, différents intellectuels estiment qu’il importe d’analyser le mot « humanisme » ainsi que tous ceux auxquels il est le plus souvent associé (christianisme, athéisme, scientisme, marxisme…) afin de déceler : 1°) ce qui les rapproche par delà leur antagonisme apparent ; 2°) inversement, le côté utopique de vouloir les associer ; 3°) l’impossibilité pure et simple de les définir.
En 1979, Jacques Ellul se réfère entre autres à la théologie de la libérationpour démontrer que « christianisme » et « marxisme » ne sont nullement contradictoires, précisément parce qu’ils sont tous deux des idéologies ; terme qu’il définit ainsi : « dégradation sentimentale et vulgarisée d’une doctrine politique ou d’une conception globale du monde »279.
En 1982, Ernesto Grassi, à l’inverse, démontre le caractère aporétique de l’expression « marxisme-humanisme », se référant à la fois à l’humanisme de la Renaissance, aux théories de l’histoire de Vico et aux positions d’Heidegger280,281 (lire infra). Selon lui, « le marxisme a négligé la relation établie par Vico entre travail et imagination. C’est la cœur de la différence entre marxisme et humanisme »282.
En 1995, l’historienne hongroise Mária Ormos estime que, compte tenu des effets de propagande, les mots sont complètement dévalués : la distinction entre l’« humanisme » affiché du stalinisme et l’« anti-humanisme » du nazisme ne peut être la source d’aucun enseignement, elle n’a pas de sens283.
À la fin du siècle, l’idéologie humaniste est entrée dans le moule institutionnel (lire infra) et les expressions ingérence humanitaire et aide humanitaire font partie du langage usuel. Mais au delà des arguments invoqués (entre-aide, générosité…), les critiques fusent.
En 1992, certains militants libertaires rapprochent l’humanitarisme des pratiques de philanthropie mises en place à la fin du xviiie siècle par les cercles libéraux : « les organisations humanitaires ressemblent aux femmes de patrons qui s’occupaient des pauvres pendant que leurs maris les fabriquaient »284.
Les milieux conservateurs ne sont pas non plus avares de critiques. Ainsi, en 1993, Luc Ferry fait remarquer que « l’on reproche volontiers au droit-de-l’hommisme de verser dans un « universalisme abstrait » et désincarné, oublieux des réalités historiques qui, seules, permettent de comprendre le sens véritable des conflits humains. Bien plus, on soupçonne la nouvelle charité de faire trop bon ménage avec le « business » : pour l’essentiel, elle servirait à donner bonne conscience aux téléspectateurs tout en assurant le succès médiatique de ses promoteurs »285.
Selon Marcel Gauchet, une « politique des droits de l’homme » est née en raison d’une « puissante poussée d’individualisme » mais le fait que les droits de l’homme sont précisément érigés en politique révèle « une incapacité à se représenter l’avenir et une impuissance à penser la coexistence de l’individu et de la société »287.
Par ailleurs, tout comme le concept de droit de l’homme, celui d’humanitude est dilué dans les logiques marchandes : alors qu’en 1987, le philosophe Albert Jacquardle définissait comme « les cadeaux que les hommes se sont faits les uns aux autres depuis qu’ils ont conscience d’être »18, deux psycho-gériatres le réduisent par la suite à une marque déposée de soins.
Pour un « humanisme paradoxal et tragique »
En 1993, Jean-Michel Besnierpréconise un renouveau de l’humanisme288. Celui-ci, estime-t-il, doit être « paradoxal et tragique » :
« C’est dans la désillusion qu’il faut puiser les armes du renouveau. (…) Ayons le courage d’admettre que l’homme est méchant et naturellement égoïste, que la culture ne le met pas à l’abri des régressions vers la barbarie et que rien jusqu’à présent ne le distingue radicalement des animaux eux-mêmes. (…) L’humanisme désillusionné auquel nous sommes désormais contraints sera forcément non dogmatique : sa force résidera dans le refus qu’il oppose à toute ambition de réduire l’homme à une essence éternelle ou à une définition générique (…). Si l’optimisme ne nous est plus permis, il reste en revanche à accueillir la puissance mobilisatrice du pessimisme : car c’est être humaniste que de dire « non » au monde tel qu’il va et aussi de savoir (…) que l’inhumain est une part nécessaire de l’humain. (…) La ruine des absolus est une chance pour les hommes. (…) Enfin, n’est-il pas bon que l’humanisme se dégage du mol oreiller des consensus ? La bannière ne rassemblera qu’en tenant compte de ce qui divise. (…) Il n’est d’attitude humaniste que dans la sauvegarde des espaces où peuvent se négocier les conflits. (…) Un pessimisme actif vaut mieux qu’un optimisme béat, la régulation des conflits est préférable au confort éphémère des consensus et la charge contre le présent, même dépourvue d’illusions, comporte davantage d’humanité que la fuite en avant vers quelque insoutenable bonheur. Il n’est d’humanisme que paradoxal et tragique289. »
En 1998, Tzvetan Todorovs’éloigne de ses premières analyses structuralistes pour aborder la notion d’humanisme, en la démarquant catégoriquement de ce qu’il appelle l’« humanisme conservateur », l’« humanisme scientiste » et l’« humanisme individualiste »290, mais également de l’« humanisme politique » (notamment sa variante républicaine coloniale) et de l’« humanisme des Droits de l’homme »291. Il considère que, dans toutes ces familles, on veut « continuer à jouir de la liberté sans avoir à en payer le prix »292 et il plaide en définitive pour un humanisme basé sur trois principes qu’il appelle l’« autonomie du je », la « finalité du tu » et l’« universalitédes ils »293.
Commentant son livre, Sophie Ernst, philosophe à l’INRP propose cette typologie :
« Il y aurait l’humanisme comme idéologie, lorsque ne fonctionne qu’un simple schéma engendrant des lieux communs, assez nettement identifiables, et il y aurait l’humanisme comme idéal, ce que Todorov a tenté de reconstruire avec une certaine plausibilité. Mais pour ne pas tomber dans les travers de l’humanisme comme idéologie, cet humanisme comme idéal ouvert et comme matrice créative (…) a besoin de s’enraciner dans l’humanisme comme corpus294. »
En 1998, dans son essai Règles pour le parc humain, sous-titré Une lettre en réponse à la Lettre sur l’humanisme de Heidegger, le philosophe Peter Sloterdijkconsidère que l’humanisme, par l’intermédiaire des livres, a longtemps servi aux hommes à se donner une consistance, une raison d’être, une bonne conscience : cela leur a permis de « se domestiquer ». Mais l’avènement de la culture de masse et la prétendue « révolution » numérique clôturent définitivement cette époque : le temps de l’humanisme est révolu. Il l’est d’autant plus que, malgré les bonnes intentions qu’il affichait, il a dégénéré en bolchévisme ou en fascisme. « Qu’est-ce qui apprivoise encore l’être humain quand l’humanisme échoue dans son rôle d’école de l’apprivoisement ? », conclut le philosophe295.
L’année suivante, l’Américain Francis Fukuyama tire à son tour un signal d’alarme. Dans un article intitulé « Le dernier homme dans une bouteille »296,297 et surtout en 2002, dans son livre Our Posthuman Future (traduit la même année en français par La fin de l’homme)298, il popularise l’expression « post-humanisme ».
On confond souvent les termes « post-humanisme » et « transhumanisme ». Ainsi lorsqu’en 2002 le Français Rémi Sussanécrit :
« Le transhumanisme, c’est l’idée que la technologie donne à l’homme les moyens de s’affranchir de la plupart des limitations qui lui ont été imposées par l’évolution, la mort étant la première d’entre elles. À terme, on pourrait voir naître, au-delà du post-humain, les premières créatures post-biologiques : soit des intelligences artificielles succèderont à leurs géniteurs humains, soit les hommes eux-mêmes fusionnés avec la machine jusqu’à être méconnaissables299. »
La différence entre les deux termes est pourtant essentielle. Le premier désigne le constat quelque peu désabusé (de Sloterdijk et Fukuyama) du dépassement de la condition humaine par les technologies. Le second désigne en revanche un courant de pensée prosélyte, issu d’un milieu d’ingénieurs (pour la plupart originaires de la Silicon Valley) qui, non seulement ne sont pas consternés par la situation mais tendent au contraire à s’en féliciter, tout en reconnaissant les risques et dangers que cette mutation soulève.
xxie siècle
Humanisme et capitalisme
À la fin de la Guerre froide, le libéralisme économique régit l’ensemble de la planète. De plus en plus de services, autrefois gratuits, deviennent payants. Il en va ainsi, notamment, des prises de positions d’un nombre croissant d’économistes, de philosophes et de sociologues. C’est ainsi que, selon l’historien Jean-Pierre Bilski, le concept d’humanisme se trouve régulièrement instrumentalisé, manié de sorte à humaniserl’idéologie capitaliste300.
De tels gains questionnent, sinon la crédibilité de la philosophie, du moins celle du propos : l’humanisme ne sert-il pas de caution morale au capitalisme ? Ferry pose la question311 et Comte-Sponville y répond. Il soutient que le travail est une valeur tout en qualifiant le capitalisme d’amoral. Il refuse en effet de l’évaluer en termes d’éthique au motif que celle-ci ne concerne que les individus. Et arguant que la majorité d’entre eux n’entendent pas changer de système, il cautionne la légitimité de celui-ci312, non sans revendiquer un certain cynisme313.
Chez les patrons22 et les managerseux-mêmes, l’humanisme est fréquemment présenté comme une référence. Ainsi en 2012, Laurence Parisot, cite Érasme (« L’esprit d’entreprise est bien supérieur à l’activité de commerce qu’il engendre »314) pour affirmer « l’ambition humaniste » du Medef, dont elle est présidente. « Quand nous disons « compétitivité », souligne-t-elle, nous voulons dire « compétitivité équitable », ce qui signifie que nous mettons toujours l’homme au cœur de nos projets »315.
« Mettre l’homme au cœur des projets de l’entreprise »… Un an après le discours de Parisot, Jean-Michel Heitz, professeur en management, commente cette formule, après avoir convoqué un grand nombre de philosophes (Aristote, Kant, Hegel, Heidegger, Foucault, Ricœur…) :
« Bien-être et entreprise sont-ils des oxymores ? Seule la considération du profitsemble dominer l’économie, on voit quotidiennement des cas de licenciements abusifs et les drames humains qui s’ensuivent engendrant chômage, précarité et perte d’estime de soi. Paradoxalement le discours ambiant ne cesse de scander son objectif : replacer l’homme au centre. Vœu pieux, utopie ? Lorsque l’on est un manager qui a réfléchi à ce que peut être l’humanisme à notre époque et dans ce cadre, on voit que la première condition pour lui donner un sens nouveau, c’est de créer le bien-être au travail, afin que chacun le vive comme une activité épanouissante et non pas destructrice. (…) Dans ma carrière de manager au sein d’entreprises de caractère international, il m’a fallu peu de temps pour vérifier que le bon management, efficace, ne peut s’appuyer que sur le respect des personnes316. »
L’« humanisme » à l’agonie
En marge à la fois de l’instrumentalisation du discours humaniste dans le monde managérial, ou bien son discrédit par les philosophes postmodernes(dans le sillage de Foucault) ou encore l’utilisation fourre-tout du mot « humanisme », rares sont ceux qui manifestent un questionnement approfondi sur l’humanisme.
En quête permanente d’une issue positive au conflit israélo-palestinien, Edward Saïd lui consacre en 2003 son dernier livre317. Et quelques jours avant sa mort, il précise qu’il croit encore à l’humanisme en tant que valeur : « … (ce) mot que, têtu, je continue à utiliser malgré son rejet méprisant par les critiques postmodernessophistiqués »318. À la fin des années 2000, il arrive que le terme « humanisme » soit utilisé à des fins polémiques, pour alimenter des débats au sein d’une discipline en perte d’audience du fait de la montée en puissance des technologies, par exemple la psychanalyse à la suite de l’impact croissant des sciences cognitivesdans la communauté scientifique. Mais les prises de position sont alors loin de faire l’unanimité319,320,321.
Les bons sentiments
En 2008, Edgar Morin appelle de ses vœux « un humanisme concret » :
« Bien que pendant vingt années la notion d’humanisme a été ridiculisée par la pensée dominante, je crois qu’elle doit être sauvegardée. (…) Cet humanisme a deux visages: l’aspect judéo-chrétien (Dieu qui a fait l’homme à son image dans la Bible le premier visage) et une source grecque (les hommes dirigent leur cité, la capacité des humains à s’autogouverner, par la démocratie, avec cette idée que la raison est ce qui doit nous guider en tant qu’humain). Bien qu’il continue à être irrigué par l’évangélisme, le premier visage s’est laïcisé profondément (…). Je poursuis cet humanisme en rejetant l’autre visage, celui qui veut faire de l’homme le maître et le possesseur de la nature. Descartesl’énonce encore avec prudence en disant que la science doit permettre à l’homme de se rendre « comme maître et possesseur de la nature », mais le message deviendra plus impératif avec Buffon, Marx, avec le développement économique, technique et scientifique moderne qui met en marche la maîtrise du monde. Cet humanisme est non seulement arrogant, mais en plus il est devenu absurde puisque la maîtrise de la nature considérée comme un monde d’objets conduit à la dégradation non seulement de la vie, mais aussi de nous-mêmes. Il était fondé sur la disjonction absolue entre l’humain et le naturel, alors que nous sommes dépendants. Nous devons abandonner l’idée d’un humanisme où l’homme prend la place de Dieu. Il ne faut pas nous diviniser, il faut nous respecter. (…) Je reprends le flambeau de l’humanisme, avec ce qu’il comporte d’universalisme, mais en faisant la rupture avec ce qu’il comporte d’universalisme abstrait. (…) Je pense qu’il faut un humanisme concret, fait de diversités et d’unité, qui reconnaisse les diversités humaines qui sont des formes de richesse322. »
En 2011 à la Basilique Sainte-Marie-des-Anges de Rome et devant le pape Benoit XVI et un parterre d’ecclésiastiques, Julia Kristevarecommande « dix principes pour l’humanisme du XXIe siècle ». Elle clôt son discours par ses mots : « Face aux crises et menaces aggravées, voici venu l’ère du pari. Osons parier sur le renouvellement continu des capacités des hommes et des femmes à croire et à savoir ensemble. Pour que, dans le multivers bordé de vide, l’humanité puisse poursuivre longtemps son destin créatif.»323
En 2015, le pape Françoisconcentre sa réflexion sur le concept d’humanisme chrétien, précisant que ses bases sont l’humilité, le désintéressement et la béatitude et que les « tentations » qui empêchent son développement sont le pélagianisme et le gnosticisme324. Mais peu après, devant les membres de l’Association des parents d’élèves de l’enseignement catholique italien, il déclare : « parler de l’éducation catholique équivaut à parler de l’humain, de l’humanisme. J’ai exhorté à donner une éducation inclusive, une éducation qui fasse une place à chacun et qui ne sélectionne pas de manière élitiste ceux qui bénéficieront de ses efforts325 ».
En 2016, il appelle les Européens à « un nouvel humanisme », tout en admettant que cette idée relève du « rêve »326 et d’une « utopiesaine »327 : « Je rêve d’une Europe où être migrant ne soit pas un délit mais plutôt une invitation à un plus grand engagement dans la dignité de l’être humain tout entier. (…) Je rêve d’une Europe dont on ne puisse pas dire que son engagement pour les droits humainsa été sa dernière utopie »328.
De l’humanisme au transhumanisme
Le début de ce siècle est traversé par un certain nombre d’inquiétudes (catastrophe écologique, montée du terrorisme…) et d’incertitudes, toutes liées à la démocratisation des « technologies (elles sont toujours plus accessibles à tout un chacun), à leur montée en puissance incessante (notamment l’intelligence artificielle et les techniques de manipulations du vivant) et au fait que le droit et l’éthique ont de plus en plus de mal à suivre le rythme des innovations. Si bien que le débat sur l’humanisme tend peu à peu à laisser la place à celui sur le post-humanisme et le transhumanisme.
Les questions se multiplient dans la littérature et les médias : les humains sont-ils maîtres de la technologie ou « contraints » d’innover sans cesse329 ? Celle-ci les oblige-t-ils à « se réinventer » sans cesse330 ? Seront-ils un jour « remplacés »331, voire « dépassés » par elle332 ? Dès à présent, sont-ils encore autonomes333 ? Face aux droits de l’homme, faut-il envisager un droit du robot334 ?
Après que l’humanisme de la Renaissance se soit constitué autour de l’idée que la raison peut se développer indépendamment de la foi et que celui des Lumières se soit construit autour de la prétention de la première à se substituer à la seconde, les « technoprophètes »335 affirment que le temps de l’humanisme est clos et qu’en revanche s’ouvre celui du transhumanisme336,337. Leurs prises de position divisent alors ouvertement deux camps : d’un côté les technophiles, qui estiment que « l’innovation résoudra tous nos maux » ; en face, les technophobes, « qui craignent perpétuellement le pire »338 et selon qui, en particulier, l’« intelligence artificielle est contraire à la dignité humaine »339.
H+, un symbole du transhumanisme.
Dans le sillage de l’« humanisme difficile » de Simondon (lire infra), le philosophe belge Gilbert Hottois estime non seulement que le transhumanisme ne contredit pas l’humanisme mais qu’il s’inscrit dans sa lignée :
« Le transhumanisme offre quelque chose à répondre aux religions et aux métaphysiques qui continuent de jouer un rôle considérable de légitimation, souvent implicite voire inconsciente, dans les prises de position éthique et politique pour ou contre les projets de recherche et les innovations. […] Il offre encore quelque chose à dire face au nihilisme, c’est-à-dire au vide laissé par l’effondrement des grandes religions, métaphysiques et idéologies modernes. […] Il promeut rationnellement et délibérément une espérance d’auto-transcendance matérielle de l’espèce humaine, sans limites absolues a priori… […] Son intérêt est aussi critique : il invite à réfléchir à certains préjugés et illusions attachés aux humanismes traditionnels et modernes dont il révèle, par contraste, des aspects généralement peu ou non perçus. […] Pour une part dominante, ces humanismes sont antimatérialistes et spiritualistes. S’ils ne sont plus pré-coperniciens, ils véhiculent des images pré-darwiniennes. Ils reconnaissent l’Histoire, mais guère l’Évolution. Ils ne voient l’avenir de l’homme que sous la forme de l’amélioration de son environnement et de son amélioration propre par des moyens symboliques (éducation, relations humaines, institutions plus justes, plus solidaires, plus égalitaires, etc.). L’humanisme relève d’une image implicite partiellement obsolète de l’homme. […] C’est à l’actualisation de l’image de l’homme et de sa place dans l’univers que le transhumanisme modéré bien compris travaille. Le transhumanisme, c’est l’humanisme, religieux et laïque, assimilant les révolutions technoscientifiques échues et la R&D à venir, capable d’affronter le temps indéfiniment long de l’Évolution et pas simplement la temporalité finalisée de l’Histoire. C’est un humanisme apte à s’étendre, à se diversifier et à s’enrichir indéfiniment. »
— Gilbert Hottois, Le transhumanisme est-il un humanisme ?, Académie Royale de Belgique, 2014, p. 75-77
Jean-Claude Guillebaud fait remarquer qu’Hottois « consent de bonne grâce au nihilismecontemporain dans lequel il voit plus d’avantages que d’inconvénients »340. Et lui-même cite Hottois :
« Nous sommes dans un monde, où l’ontologie, la métaphysique, le fondamentalisme et toutes les notions phares qui en relèvent – tels que Dieu, la vérité, l’être, la nature, l’essence, la valeur en soi, etc. – sont en crise et nous estimons que cette crise n’est pas le mal. Le nihilisme qui s’y associe présente beaucoup d’aspects positifs, émancipateurs, diversificateurs, créativité épanouissante de possibilités et d’espoir. »
— Gilbert Hottois, Essai de philosophie bioéthique et biopolitique, Librairie Vrin, 1999
Le génie génétique est un domaine d’interventions techniques permettant de modifier la constitution d’un organisme en supprimant ou en introduisant de l’ADN. On y recourt par exemple dans le domaine de l’agriculture (on parle alors d’organismes génétiquement modifiés) mais aussi sur les animaux et sur l’homme, à des fins thérapeutiques. La transgénèse est le fait d’implanter un ou plusieurs gènes dans un organisme vivant. Mais dès lors que la nature et l’homme sont modifiés dans leurs fondements biologiques mêmes, ces modifications posent des problèmes d’ordre éthique.
Jusqu’à quel point la technique peut-elle être utilisée par la médecine pour palier des déficiences et anomalies naturelles d’un être humain ? Peut-on, en vertu de principes de prévention et par le biais de manipulations génétiques, doter un individu sain de qualités dont la nature ne l’a pas pourvu (principe de l’homme augmenté, défendu par les penseurs transhumanistes) ? Ainsi se posent deux questions majeures dans le champ de la bioéthique.
Faisant valoir que c’est le principe d’humanité tout entier qui est remis en question par des moyens techniques341, Jean-Claude Guillebaud défend en 1999 un humanisme paradoxal, « aussi éloigné d’un universalismeconquérant que d’un déconstructivisme suicidaire »342 et « consistant à s’ouvrir à l’altérité, mais en faisant preuve d’une fermeté retrouvée quant aux principes qui constituent notre héritage historique »343.
Depuis les origines de la psychologie, la notion d’intelligenceest controversée : en quoi consiste-t-elle, comment la mesure-t-on ? etc. Or, à partir de la seconde moitié du xxe siècle, des ingénieurs anglais et américains se sont efforcés de développer les processus d’automation dans des machines, au point que peu à peu s’est répandue l’expression « intelligence artificielle ». Durant les années 1980a émergé l’idée que celle-ci pourrait un jour se montrer plus performante que l’intelligence humaine. Au début du xxie siècle, quelques futurologuesestiment que, dans bien des domaines, à commencer celui de la logique, cela sera prochainement le cas. Ainsi, en 2005, dans un ouvrage traduit sous le titre Humanité 2.0, l’un d’eux, l’Américain Ray Kurzweil, appelle singularité technologique cet hypothétique moment344.
En 2004, les Américains Ray Siemens et John Unsworth forgent l’expression Digital Humanities345. Les humanités numériques peuvent être définies comme l’application du « savoir-faire des technologies de l’informationaux questions de sciences humaines et sociales »346. Elles se caractérisent par des méthodes et des pratiques liées à l’utilisation et au développement d’outils numériques ainsi que par la volonté de prendre en compte les nouveaux contenus et médias numériques, au même titre que des objets d’étude traditionnels.
En 2001, dans le sillage direct de la pensée de Gilbert Simondon (lire supra), Xavier Guchet se prononce « pour un humanisme technologique », « récusant à la fois les pensées technicistes du social et les doctrines pour lesquelles un humanisme véritable doit commencer par disqualifier les techniques industrielles »347.
En 2011, se basant sur la typologie de Lévi-Strauss, Milad Doueihi, historien des religions français, prône un « humanisme numérique »348,349. Selon lui, l’humanisme numérique vise à repérer ce qui peut être conservé de l’humanisme classique350.
Par delà les prises de position philosophiques, le début du siècle est concrètement marqué par le brouillage des frontières entre l’humain et ses artefacts :
les robots eux-mêmes échangent des informations entre eux (objets connectés) ;
les humains peuvent sinon de changer de sexe, au moins de genre (transidentité) ;
ils peuvent évoluer dans des environnements artificiels se substituant aux environnements naturels (réalité virtuelle) ;
par le biais des réseaux sociauxet de la blogosphère, ils peuvent se faire entendre bien au-delà de leur périmètre naturel et énoncer toutes sortes de propos, vérifiés et argumentés ou non, effaçant ainsi les limites entre fantasmes et vérité (ère post-vérité).
Dans ce contexte de porosité extrême entre la nature et l’artifice, les débats portent moins sur l’humanisme que sur le principe d’humanité, pour reprendre l’expression de Jean-Claude Guillebaud351 :
« Voilà que la classique querelle de l’humanisme qui tournait autour de Heidegger et de l’héritage des Lumières, change brutalement de nature et de signification. Pourquoi ? Parce que cette fois, le point d’aboutissement de la rationalité humaniste n’est autre que le génie génétique, les biotechnologies, le cognitivisme, etc. Autrement dit, l’humanisme des Lumières débouche in fine sur une folle victoire contre… lui-même. Ce n’est plus la nature qu’il est en mesure d’asservir en la désenchantant, c’est le sujet lui-même. L’héritier de l’humanisme n’est donc plus cet homme rationnel, ce conquérant pressé de soumettre le monde à l’empire de sa raison. Le voilà réduit à une petite chose aléatoire qui n’est plus au centre du monde , à une « fiction » fragile que sa propre science est désormais capable de déconstruire352. »
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Theodor Schwartz(de), Irrationalismus und Humanismus? Kritik einer imperialistischen Ideologie, 1946.
Traduit en 1948 sous le titre Irrationalisme et humanisme : Critique d’une idéologie impérialiste. Réédition : L’Âge d’homme, 1993
Werner Jaeger, Humanism and Theology Under the Auspices of the Aristotelian Society, Marquette University Press, 1943.
Traduit de l’anglais par Henri Dominique Saffrey sous le titre Humanisme et théologie, Cerf, 1956
From Wikipedia, the free encyclopedia: Raffaello Sanzio da Urbino ( March 28 or April 6, 1483 – April 6, 1520), known as Raphael , was an Italian painter and architect of the High Renaissance. His work is admired for its clarity of form, ease of composition, and visual achievement of the Neoplatonic ideal of human grandeur. Together with Michelangelo and Leonardo da Vinci, he forms the traditional trinity of great masters of that period.
Raphael was enormously productive, running an unusually large workshop and, despite his death at 37, leaving a large body of work. Many of his works are found in the Vatican Palace, where the frescoed Raphael Rooms were the central, and the largest, work of his career. The best known work is The School of Athens in the Vatican Stanza della Segnatura. After his early years in Rome much of his work was executed by his workshop from his drawings, with considerable loss of quality. He was extremely influential in his lifetime, though outside Rome his work was mostly known from his collaborative printmaking.
After his death, the influence of his great rival Michelangelo was more widespread until the 18th and 19th centuries, when Raphael’s more serene and harmonious qualities were again regarded as the highest models. His career falls naturally into three phases and three styles, first described by Giorgio Vasari: his early years in Umbria, then a period of about four years (1504–1508) absorbing the artistic traditions of Florence, followed by his last hectic and triumphant twelve years in Rome, working for two Popes and their close associates
Vasari, Life of Raphael from the Lives of the Artists, edition used: Artists of the Renaissance selected & ed Malcolm Bull, Penguin 1965 (page nos from BCA edn, 1979)
Wölfflin, Heinrich; Classic Art; An Introduction to the Renaissance, 1952 in English (1968 edition), Phaidon, New York.
Trireme Olympias: conjectural reconstruction after the work of J.S. Morrison, J.S. Coates and F. Welsh. Now at the Paleon Faliron Museum of ancient marinery
Giacobbe Giusti, Galère (navire)
Doppelseite, aus Conrad Grünenberg: Beschreibung der Reise von Konstanz nach Jerusalem. Bodenseegebiet, um 1487. Badische Landesbibliothek Karlsruhe, Cod. St. Peter, pap. 32.
Autre galère présentée au Musée d’histoire navale de Venise.
Une galère (du grec médiévalγαλέα / galéa) est un type de navire à rames et voiles latines sur un, deux ou trois mâts à antennes1 , d’abord à usage commercial puis à fonction essentiellement militaire. Elle est mue par des galériens qui constituent la chiourme. Ce sont des rameurs volontaires, des esclavesou des repris de justice. Leur force musculaire est employée à actionner les rames, lorsque le vent ne souffle pas dans la bonne direction et lors de manœuvres d’attaques ou de parades.
Une galère ressemble beaucoup à une trière grecque. C’est le nombre d’étage de rames qui les différencie. Ainsi une trière comporte trois étages de rames alors qu’une galère sensile, un seul étage de rames.
Différents types de galères
On distingue le nombre d’étages de rames (monère, un étage ; dière, deux étages ; trière, trois étages) et le nombre de rameurs par rame (quadrirème, quatre rameurs, quinquérème, cinq rameurs). Mais ce n’est pas aussi simple :
les pentécontères, premières galères construites, sont des monères birèmes (un niveau, deux rameurs par rame) ;
les birèmes sont en fait des dières « monorèmes » (deux niveaux, un rameur par rame) et sont donc l’opposé des pentécontères ;
les trirèmes sont en fait des trières « monorèmes » (trois niveaux, un rameur par rame) ;
les quadrirèmes sont en fait des dières « birèmes » (deux niveaux, deux rameurs par rame)2 ;
On ignore quel était l’agencement exact au-delà des quadrirèmes. Les niveaux au-dessus (qui vont jusqu’à des « décirèmes ») sont nommés collectivement « polyrèmes ». On pense qu’il n’y eut jamais plus de trois niveaux (ce qui aurait complexifié la construction et aurait été moins stable)
Les principales dispositions offensives et défensives que l’on peut trouver sur une galère antique sont le château, l’éperon et le corbeau.
Le vocabulaire maritime sur les galères est très différent du vocabulaire standard. Contrairement aux autres bateaux mus par des avirons, les marins parlent de rames pour les galères. Les galériens constituent la chiourme et ne sont pas assis sur des bancs de nage mais sur les bancs de chiourme où ils sont enchaînés.
Dès le viie siècle av. J.-C., les Grecs construisent des vaisseaux de combat à voile et à rame. La trièredéveloppée à partir du pentécontère, devient dès le ve siècle av. J.-C. le vaisseau de combat le plus efficace. Durant l’époque hellénistiquea lieu une course au gigantisme avec les quadrirèmes puis les quinquérèmes, se faisant, Alexandre le Grandles équipera de catapultes.
Durant la première guerre punique, la flotte carthaginoise est équipée de quinquérèmes que les Romains copient. Rome, qui préfère les trirèmes, réussit à en construire cent en deux mois en . Ils sont équipés de corbeau, sorte de pont volant pouvant retomber sur le bord du bateau ennemi pour lancer l’abordage. Les rangs de rames variaient de deux à trois. Ces modèles démontrent la supériorité des trières sur les navires plus gros. Les bateaux étaient construits pour voguer en mer Méditerranée, mais ont aussi connu des succès en océan Atlantique.
À la bataille d’Actium, la flotte d’Auguste est équipée de liburnes, bateaux plus légers et dérivés des navires pirates de la côte dalmateavec deux rangs de rameurs faiblement décalés. Ces liburnes étaient spécialisés dans la lutte contre les pirates, seule menace maritime pour l’empire aussi bien en Méditerranée, que dans Atlantique, la Manche, sur le Rhin et le Danube.
Si, au ve siècle av. J.-C. à Athènes les rameurs étaient tous des citoyens libres, éventuellement renforcés par des métèquesrémunérés, les Romains eux, utilisaient des marins, main-d’œuvre spécialisée, qui sont des hommes libres ou des esclaves.
À la chute de l’empire romain d’Occident, l’Empire byzantin assure sa suprématie sur la Méditerranée en fait évoluer la galère vers le dromon, un autre bâtiment léger. Les Arabes après la conquête de la Syrie sont à même de construire ces bâtiments. En 653, la flotte arabe, après s’être emparée de Chypre, infligeait une sévère défaite à la flotte byzantine sur les côtes de Lycie. Les Byzantins regagnent leur hégémonie maritime face aux Arabes en inventant le feu grégeois et en faisant grossir leurs vaisseaux. Au ixe siècle, ceux-ci ont deux rangs de rames largement séparées.
À la même époque, il existait d’autres types de dromons plus légers : le pamphyle, l’ousiakos et la galaia (qui allait donner son nom aux navires de combat), qui se caractérisent tous par l’usage de rameurs, de voiles et d’un éperon.
Byzance affaiblie par les Arabes laisse les Cités-États maritimes d’Italie se développer et acquérir leur propre flotte de birèmes puis de trirèmes. C’est à ce moment que la voile alla trina d’origine arabe remplace la voile carrée.
Époque classique
Giacobbe Giusti, Galère (navire)
La Galère amirale La Réale, gravure de 1697.
Giacobbe Giusti, Galère (navire)
Vue arrière d’une galère, probablement de l’ordre de Saint-Jean de Jérusalem en 1765. (Marine au soleil couchant (détail), par Charles-François Grenier de Lacroix)
Vers 1290, Benedetto Zaccaria, un Génois, inventa la sensile. Une nouvelle technique de maintien des rames qui permet d’asseoir trois hommes sur un même banc. Ainsi, quelque 70 galères génoises à sensile écrasèrent une flotte de plus de 100 galères classiques vénitiennes au large de Curzola en 1297, sans presque aucune perte du côté génois. Cette technique allait rapidement s’imposer et seulement quelques changements mineurs, comme le remplacement des avirons de gouverne latéraux par le « timon à la bayonnaise » et l’apparition à l’avant d’un second mât, « l’arbre3 de trinquet », eurent lieu avant la disparition des galères.
Vers 1450, on embarque de l’artillerie. Vers 1540, toutes les « réales » et toutes les « capitanes » étaient des quadrirèmes à quatre hommes et quatre rames par banc. Les techniques de rames évoluent et les galères s’alourdissent. Des galères imposantes appelées galéasses sont construites. Les galères françaises allaient souvent combattre les Anglais en Manche et en mer du Nord. Ceux-ci tentèrent alors de créer un type de navire mieux protégé mais capable de marcher à l’aviron, les « rowbarges » qui n’eurent que peu de succès face aux Français.
Durant le Moyen Âge les rameurs des galères étaient des volontaires4 — comme dans presque toutes les flottes européennes — on était « marinier de rame » à bord d’une galère comme « marinier de voile » à bord d’un navire. À la fin de la guerre de Cent Ans (milieu du xve siècle), Marseille installe un commerce régulier avec les « échelles du Levant » en Méditerranée orientale, le nombre des galères augmente alors considérablement ; parallèlement elles sont allongées pour transporter un maximum de marchandises, ce qui implique plus de rameurs et rapidement la pénurie. On va alors prélever des condamnés dans les prisons, et comme chacun y trouve son compte, cette ponction se transforme en peine de justice : dès le xvie siècle on condamne directement aux galères. Il faut alors empêcher les évasions en enchaînant les condamnés à leur banc : avec l’apport d’un uniforme rouge, le galérien est né.
Les seigneurs provençaux propriétaires de leurs galères se sont fédérés en un « Corps des galères » à la fin du xve siècle pour se mettre au service du roi de France dans ses Guerres d’Italie. À leur tête un Général des galères qui monte la plus belle des galères, la Réale. Ce Corps des galères fonctionne ainsi tout au long du xvie siècle. Lorsque Richelieu crée vers 1626 la Marine de guerre, les galères opposent un refus absolu à leur intégration dans cette flotte de combat. Et ceci jusqu’en 1748.
À son apogée, entre 1690 et 1700, le corps des galères comprend quarante galères, douze mille rameurs, trois mille officiers et matelots, quatre mille soldats.
Les galères ne servaient guère que sur la mer Méditerranée et la Baltique au xviie siècle. Pour la France, elles avaient pour quartier général Marseille où se trouvait un arsenal des galères et où résidait l’intendant des galères. Elles allaient en même temps à la voile et à la rame. Les rames, très longues (douze mètres), étaient manœuvrées par cinq rameurs. Il y avait 51 bancs de rame sur une galère « ordinaire » (26 à droite et 25 à senestre), soit 255 rameurs.
Au xviie siècle, la domination s’effaça devant l’apparition du grand navire de guerre à voiles (nave, galion puis vaisseau) inattaquable par les galères, qui continuaient de garder leur avantage propre, à savoir, naviguer avec peu de vent ou de tirant d’eau et la rapidité en cas de vent contraire.
En 1748, le corps des galères disparaît en France et en Espagne. Les dernières galères russes participèrent pour la dernière fois à des combats dans le conflit de 1808 entre la Russie et la Suède.
En 1258, les comptes de la châtellenerie de Chillon(Suisse) mentionnent l’existence d’une galère appartenant au comte de Savoie. Du xiiie siècle jusqu’en 1720, des galères naviguent sur le lac Lémanpour le compte de la Savoie, de Genève et de Berne5.
En référence à cette histoire, le après cinq années de construction, la réplique simplifiée d’une galère du xviiie siècle a été lancée sur le lac Léman à Morges (Suisse). Baptisé La Liberté, ce navire effectue des croisières sur le Léman depuis cette époque6.
Notes et références
↑Dictionnaire de la marine à voiles (Pâris et De Bonnefoux, réédition de 1999), page 340
↑Dans le langage des galères, un mât se dit « arbre ». Le grand-mât est l’« arbre de mestre », le mat d’artimon l’« arbre de méjane ». Maurice Duron, Des mots de voile et de vent, Autrement (2003).
↑On appelle « bonnevoglie » ces galériens volontaires. Maurice Duron, Des mots de voile et de vent, Autrement (2003).
↑Voiles latines du Léman : Galère La Liberté, Cabédita 1998
Age of the Galley: Mediterranean Oared Vessels since pre-Classical Times, John S. Morrison, 2004, Conway Maritime Press
La Science des galères, Barras de la Penne, 1667, musée de la marine.
Didier Chirat, Vivre et mourir sur les galères du Roi-Soleil, L’Ancre de Marine, 2007.
Jean Merrien, La vie quotidienne des marins au Moyen Âge, des vikings aux galères, Hachette, 1969.
« La Fleur de Lis », Galère 1690, Gérard Delacroix, 2008, monographie exhaustive sur la conception et la construction d’une galère ordinaire de Louis XIV illustrée de nombreuses figures et de 26 plans.
Burlet René, Carrière Jean, Zysberg André, Mais comment pouvait-on ramer sur les galères du Roi-Soleil ?, In: Histoire & Mesure, 1986 volume 1 – no 3-4. Varia. p. 147-208 (en ligne [archive]).
Quand voguaient les galères. Exposition. Paris : AAMM, 1990
Mémoires d’un galérien du roi soleil, Jean Marteilhe, 2009, Le temps retrouvé Mercure de rance